Quando nel cuore della terra | ci andavano i nostri nonni - Live Sicilia

Quando nel cuore della terra | ci andavano i nostri nonni

La tragedia in Cile e i minatori siciliani
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Settembre ricorda l’odore delle miniere. Il senso di vuoto, che coglieva gli operai una volta entrati e che li condannava alla solita incognita: “Troveremo la via d’uscita?” Era così sempre, anche quando, nella pancia della terra, avevano imparato a viverci, ad amarne le profondità, rassomigliate, a forza, al grembo di una madre.
La miniera, che abbracciava i carusi, quando ancora non sapevano neppure distinguere un uomo da una donna. La miniera che li costringeva a lavorare lì, nudi come vermi, mischiati a uomini più grandi di loro. Poi li restituiva alla superficie, quando ancora la luce non era sorta e giusto in tempo per dedicarsi il minimo indispensabile alla sopravvivenza. Questa era la Cozzo Disi, la più grande miniera di zolfo d’Europa, situata nel cuore delle montagne agrigentine. Un groviglio di passioni e di necessità. Un male sotterraneo, che, quando decideva di risvegliarsi, falciava a casaccio decine di vite.

Io la miniera l’ho vista da grande, quando i battenti lavorativi erano già chiusi per via di una legge, che ne sanciva l’effettiva pericolosità. Nel profondo della terra, però, è come se ci fossi stata. Questo grazie ai racconti di nonno Cocò, caruso di miniera, entrato alla Cozzo Disi a dieci anni e uscito a sessanta e più. Aveva i polmoni a colabrodo e la schiena come una mappa, dove al posto dei fiumi scorrevano ferite, ciascuna con il proprio percorso, con la medesima destinazione di sofferenza. E poi le storie di nonno Raffaele, che, però, lavorava all’esterno. Un privilegio concessogli dai “grandi” perchè suo padre, alla Cozzo Disi, era morto schiacciato come una formica sotto un piede poco indulgente.La miniera decimava le famiglie e insegnava ai giovani a diventare amici della morte. Le speranze erano soffocate da reprimende, proclamate da quelle stesse viscere senza pietà. I giorni dei minatori passavano appiccicati l’uno all’altro, tutti dello stesso colore. Di quei fatti, di una di quelle tragedie, ricorre l’anniversario proprio in questi giorni.

Dei morti della Cozzo Disi, però, se ne rammentano in pochi. Perfino i resti giacciono in tombe sbiadite dal tempo e dall’urgenza del dover dimenticare. Mentre qualche figlio ancora ricorda il sorriso del padre, la mattina prima di andare a lavoro – preludio di un addio mai convalidato – si legge del Cile. La miniera di San Josè, che assomiglia a quella che la Allende raccontò a tutto il mondo ne la sua “Casa degli spiriti”. Una miniera per cercatori d’oro, dove l’immaginazione, di chi è lontana, fa pensare al migliore tra i lieti fine. Invece a Son Josè – così come fu alla Cozzo Disi di Casteltermini – i minatori lavoravano schiacciati dalla certezza che tutto potrebbe finire da un momento all’altro.

E’ crollato un tetto, in Cile, così come tante volte – nelle operazioni di brillamento – ne crollavano alla Cozzo Disi. All’epoca però non c’era scampo. Chi moriva sul colpo, aveva la possiblità di soffrire di meno, chi avrebbe potuto salvarsi – senza i mezzi di adesso – doveva rassegnarsi a un’agonia lenta, lunga quanto il ricordo di una vita intera. Nei paesini di montagna, che contornano la Cozzo Disi, la gente pensa che il Cile, oggi, sia dietro l’angolo. Del resto, quale migliore collante se non il dolore, per rendere vicini due luogi geograficamente alle propaggini l’uno dall’altro? Qualche vecchio sopravvissuto si concede strisce di lacrime, davanti alle immagini dei minatori cileni. Meditano, riflettono, ricordano, ingoiano ancora una volta l’amoro, di un boccone mai digerito. Si domandano, a filo di voce, come è possibile, nel 2010, che esistano ancora miniere del genere. In Sicilia, le più importanti, furono chiuse da una legge degli anni ’60, che ne sanciva la pericolosità. Un anziano, che fu minatore, ci dice, però, che prima della chiusura della Cozzo Disi si dovettero registrare elenchi su elenchi di morti. “Speriamo che in Cile non sia così”, sussura, “Speriamo davvero”.

Intanto, stamani, è nata Esperanza, la figlia di uno dei 33 imprigionati. E nel nome, lo si intuisce benissimo, vuole portare il destino del padre.


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