Quei ragazzi dolcissimi | privati del futuro - Live Sicilia

Quei ragazzi dolcissimi | privati del futuro

Una giorno di lezione e poi...

Garofalo all'occhiello
di
5 min di lettura

Non entravo in quest’aula dai tempi degli esami di Anatomia; voltandomi indietro vedo che è trascorso tanto tempo e mi sembra irreale. Quarant’anni, incredibile, tanti ne sono passati! Tutto ha subito un cambiamento, le pareti rifatte, la cattedra più grande, lo schermo nuovo alle sue spalle. Alle pareti trovo quadri antichi che non ricordavo, con disegni austeri, seppiati, di pezzi anatomici con le scritte in latino. Mi avvicino in rispettoso silenzio. Il latino nobilita e sacralizza. Da secoli, accostarsi all’intimo del corpo umano ha dell’austero, del sacro; chissà se è ancora così, in questo tempo che tutto materializza e tutto deprezza, compreso il corpo umano.

L’anfiteatro è l’unico elemento rimasto intatto. Il legno consumato dei banchi e degli scalini prodigiosamente è sempre quello. Sono in anticipo per la lezione e non è ancora venuto nessuno; provo a sedermi ancora una volta sul posto che, a occhio e croce, ricordo essere stato quello mio abituale, tanti anni fa: emozione grande, allo stato puro. Poi scendo e mi avvicino alla cattedra per avviare la proiezione delle slides. Ai bordi, vicino alle pareti laterali, le due porte di ingresso dei docenti, grandi, pesanti, come quelle che da una sacrestia retrostante portano al luogo liturgico.

“Hai superato gli esami, ma devi rivedere il metodo, ragazzo mio”, mi disse il Prof quel giorno, ed ero felice. In aula oggi lo ricorda una lapide, lui, promettente cattedratico di razza, che morì non ancora anziano, pochi anni dopo. A me di lui rimane ancora, su tutto, il ricordo di quelle parole. Stamattina tocca a me giocare a fare la parte del cattedratico, io che non lo sono mai stato, né mai potrei. Sorrido un po’, da solo. Qualche minuto prima, percorrendo il vialetto che porta ad Anatomia, ho ritrovato gli alberi di sempre, che in primavera emanano una fragranza aspra. La riconoscerei dovunque, quella fragranza, sì, proprio quella; niente, come gli odori, è in grado di riportare ad un tempo e ad un luogo del passato anche lontano, in un’operazione mnemonica immediata e quasi inconscia.

Basta chiudere gli occhi, prendi fiato a bocca chiusa, e ritorni lì. Ripercorro le scale esterne che portano sulla sommità dell’anfiteatro e comincio ad incontrare i primi frequentatori del Master. Li guardo mentre lentamente prendono posto; sono giovani, direi sulla trentina, più o meno, tra medici, infermieri, fisioterapisti, psicologi. C’è anche un tecnico di radiologia. Ora cessa ogni brusìo. In un perfetto silenzio generale comincio a parlare sviluppando gli argomenti previsti e la mente si allontana dalle risonanze emotive di quel luogo, mentre si concentra sull’attualità della materia da trattare. Non smetto di guardarli, mentre loro guardano me.

Ragazzi. Giovani occhiali a coprire sguardi curiosi e un po’ smarriti. Tra la mia generazione e quella loro c’è già troppa gente che ha lasciato questa città, questo Paese, per andare a cercare e trovare lustro altrove. Le eccellenze, le risorse più valide, quelle che se fossero rimaste – ne sono più che certo – avrebbero potuto innalzare la qualità della classe dirigente locale, sono tutte andate via. Se solo ne avessero avuto una, di opportunità, per rimanere! Parlo con questi ragazzi, adesso, che hanno più duemila che novecento, tra gli anni vissuti. La lezione è diventata interattiva e c’è spazio per domande e considerazioni sugli argomenti trattati e altro ancora. L’argomento principale, adesso, fatalmente diventa il loro futuro.

Tra mille parole galleggia una certa disillusione, un deprimente disincanto, uno smarrimento. Alla fine qualcuno commenta “Vorremmo un progetto in cui credere. Siamo sempre alla ricerca, ma temiamo di non capire di che cosa. Non sappiamo in cosa sperare!” Ragazzi senza posto; questo comincio a pensare. Senza posto. Non soltanto senza posto di lavoro, che sarebbe scontato; ma senza un posto reale o virtuale dove poter proiettare il proprio futuro, senza un posto desiderabile, immaginabile, prevedibile. Frecce spuntate, senza un riconoscibile bersaglio verso cui mirare.

Le generazioni precedenti, come la mia, sia pure con fatica, hanno percorso le strade della costruzione di un tessuto sociale magari malconcio e disordinato, ma funzionante, com’è quello attuale. Ma temo che abbia lasciato alla stazione il treno fondamentale di un futuro promettente e umanamente vivibile, quello delle premesse di una vera crescita, quello dell’allevamento di un vivaio, quello di una successione. Qualcuno di loro lancia un’accusa: “Vi siete conquistati tutti i diritti, nessuno può certo recriminare. Ma per il futuro state lasciando solo cenere! Dopo di voi, il diluvio!” Adesso mi tocca difendere la nostra storia, dire che anche per noi non è stato mica facile, che il nostro tempo universitario era quello delle agitazioni sociali, degli anni di piombo, dei sampietrini staccati dal selciato e lanciati contro le Forze dell’ordine, a Roma. Gli anni delle BR e dei volantini minacciosi, gli anni di Moro, dell’aula Ascoli occupata per lunghi mesi e rinominata “Aula Maccacaro”, per l’imposizione del nome di un medico scienziato dalle idee politiche rivoluzionarie. Anni di violenza e di mille paure. ​

Ma non serve, hanno ragione. Alla fine, considerando le profonde differenze generazionali, arrendendoci all’incommensurabilità di epoche dai diversi tormenti, troviamo una facile pacificazione, abbracciandoci nella speranza di un futuro diverso e migliore, ma siamo tutti spiazzati. “…devi rivedere il metodo, ragazzo mio!”, mi dice il Prof, adesso come allora. E molto, davvero, dev’essere rivisto nel metodo e negli scopi da raggiungere. Se ci sono stati degli errori, bisognerà pur rimediare. Verrà un altro tempo; quegli alberi torneranno a profumare emanando la fragranza aspra, inconfondibile, di un’altra primavera. Che questa volta saprà di futuro.


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