PALERMO- L’assessorato regionale alla Salute dovrà versare un risarcimento da 1,8 milioni a un giovane dell’Agrigentino, contagiato da epatite C a seguito di una trasfusione di sangue subita dopo la sua nascita,. A deciderlo è stata la Corte di Cassazione che dopo 13 anni di processi ha dato definitivamente ragione al giovane e alla sua famiglia.
La trasfusione di sangue, poi rilevatosi infetto, è stata fatta nell’Ospedale “Ingrassia” di Palermo. All’età di sette anni è stata diagnosticata l’epatite C. Poi, a soli diciassette anni al ragazzo è stato scoperto un tumore al fegato.
Il giovane e la sua famiglia sono stati difesi dagli avvocati di Agrigento Annalisa Russello e Angelo Farruggia. Quest’ultimo, nel commentare la decisione della Suprema Corte ha espresso “la propria soddisfazione per il risultato conseguito, che se da un lato non restituisce al danneggiato la salute, dall’altro gli rende giustizia del danno patito senza sua colpa”.
In tutti e tre i gradi di giudizio i giudici civili hanno dato torto all’assessorato alla Salute. La prima decisione del tribunale di Palermo è arrivata nel 2009 su un ricorso presentato nel 2006. Con sentenza del dicembre 2009, Il Tribunale di Palermo ha condannato l’assessorato a risarcire la somma complessiva di 950mila euro in favore del giovane, riconoscendo 450mila euro ai familiari.
Nel luglio 2013 la Corte d’Appello di Palermo ha rigettato il ricorso proposto dalla struttura regionale. Il giudice di secondo grado attribuiva un milione di euro di risarcimento per il danno non patrimoniale data l’invalidità all’ottanta per cento del soggetto e l’età in cui si era scoperta la malattia. A questa cifra la corte sommava più di 21mila euro per l’inabilità parziale e ulteriori 385mila euro di interessi legali. Un totale di 1,4 milioni a cui sommare il danno riconosciuto ai familiari per un totale di 1,8 milioni.
Di fronte quest’ultima decisione è arrivato il ricorso al giudice romano. Oltre a contestare la determinazione del risarcimento, i legali di Piazza Ottavio Ziino hanno avanzato tra i motivi a discolpa dell’operato dei medici che all’epoca dei fatti l’autorizzazione scritta dei genitori alla trasfusione non fosse necessaria. “Non risulta – scrivono i giudici della Suprema Corte – che l’assessorato abbia mai anche solo allegato (né tantomeno provato) l’avvenuto adempimento di un simile dovere, neppure in forma orale”.
Inoltre, per difensori dell’assessorato, il trattamento sanitario fu compiuto durante una situazione di emergenza che giustificherebbe la mancanza del consenso. La tesi però è stata rigettata dai giudici per mancanza di una prova che la supporti. Appare così “priva di vizi la presunzione della Corte d’appello secondo cui – queste le parole della sentenza -, se i genitori fossero stati resi edotti della trasfusione che voleva praticarsi al figlio, avrebbero verosimilmente negato il consenso alla terapia”. Insomma davanti alla scelta fra fare una terapia non necessaria ma rischiosa, per i giudici, i genitori non avrebbero acconsentito.
Con il processo in Cassazione il ragazzo ha però ottenuto il riconoscimento di ulteriori 130mila euro d’indennizzo che gli dovevano essere versati dal ministero della Salute. Si conclude così un caso di malasanità che sembra ormai irripetibile dopo le ferree regole di controllo che sono state poi introdotte sulle trasfusioni di sangue. Resta però che, per usare le parole del difensore Angelo Farruggia: “I danneggiati sono costretti a cause civili interminabili, nel caso di specie, tredici anni, e spesso una volta conseguita la sentenza definitiva, sono ulteriormente costretti a promuovere un ulteriore giudizio di ottemperanza innanzi al Tar per ottenere materialmente il pagamento”.