BRONTE (CT) – Non sarebbe “illegale” utilizzare la parola “Bronte” sulle etichette delle confezioni di pistacchio anche quando la denominazione indica soltanto il luogo di lavorazione del prodotto. Non quello di produzione del frutto. E’ questa la verita di due noti imprenditori del settore: Claudio Luca di Bacco e Nunzio Spanò dell’azienda Valle dell’Etna intervistati da Report. VIDEO
Il problema è che non si tratta soltanto di una questione lessicale, in ballo c’è la credibilità di una denominazione e di una filiera. Il pistacchio che viene lavorato a “Bronte” non è sempre il pistacchio di “Bronte”, ma rischia di comprendere pistacchio proveniente da diverse parti del mondo o dell’Italia, che arriva alle falde dell’Etna, diventa croccantino o farina e poi finisce sulle tavole degli italiani – e non solo – a prezzi salati utilizzando un brand frutto di decenni di tradizioni.
In questo modo la concorrenza rischia di strangolare i veri e – a questo punto pochi – produttori che commercializzano il pistacchio prodotto sulle sciare di Bronte.
Così report ha infranto il mito del pistacchio.
Millecinquecento sono le tonnellate di pistacchio DOP di Bronte prodotto nel piccolo paese alle falde dell’Etna. Eppure di pistacchio associato al nome della rinomata cittadina per il mondo ne gira molto di più. Ma come questo sia possibile è l’interrogativo a cui ha cercato di dare risposta Emilio Casalini nel suo servizio “Tipico ma non troppo”.
Nel 2009 l’Unione Europea ha riconosciuto il marchio DOP, la Denominazione di Origine Protetta, all’Oro Verde del paese etneo. Un frutto di altissima qualità che cresce tra le rocce laviche e che viene raccolto ogni due anni a mano, senza la possibilità di utilizzare mezzi meccanici a causa delle asperità del terreno. Una notorietà, dunque, che da allora ha spinto sempre di più ad approfittarsi del nome della cittadina, accostandola ovunque ci sia pistacchio, così da aumentarne i prezzi di vendita, anche quando non si tratta di pistacchio DOP di Bronte. La produzione maggiore avviene infatti in Iran (con 478 mila tonnellate), seguito da USA (196.000) e Turchia (88.000). Quantitativi non paragonabili all’esiguo prodotto brontese, che rappresenta dunque solo una minima parte della produzione mondiale. E solo quest’anno su 24 controlli 5 hanno riscontrato illeciti per “usurpazione, imitazione o evocazione di una denominazione protetta, o del segno distintivo o del marchio, nella designazione e presentazione del prodotto”. Le confezioni, insomma, evocavano in modo ingannevole il pistacchio di Bronte.
Eppure c’è un modo per rimandare al paese etneo senza essere fuori legge. Il marchio DOP riguarda infatti “la materia prima, il prodotto grezzo, le maggiori, diciamo, eventuali sofisticazioni e abusi avvengono sui trasformati”. Così Biagio Schilirò, presidente del Consorzio di Tutela del Pistacchio di Bronte DOP al microfono di Casalini. “Chi non vuole utilizzare pistacchio DOP – ha spiegato quindi Biagio Fallico, docente di Agraria all’Università degli Studi di Catania – ma, poiché fa una riduzione in granella, in farina, fa una piccola trasformazione, questo consente di dire ‘prodotto e confezionato a’. Magari evocando una DOP. Per esempio ‘prodotto e confezionato a Bronte’”.
Un escamotage regolare e consentito dalla legge, dunque, che viene usato anche da alcune aziende locali. “Bronte è il luogo di lavorazione del prodotto. Una cosa è indicare la lavorazione e quindi la sede dell’impresa, una cosa è far capire che quel prodotto sia di Bronte. Nel marchio non c’è mai Bronte”. A parlare è Nunzio Spanò, commercialista dell’azienda brontese “Valle dell’Etna” sulla cui pubblicità per strada, fa notare Casalini, campeggia il nome “Bronte” così come lo stemma della Sicilia sulle confezioni di pistacchio tritato di cui non si sa l’origine. La stessa azienda nei confronti della quale, come ha ricordato Gianluca Ferlito, Comandante del Nucleo Operativo del Corpo Forestale di Catania, insieme alla Guardia di Finanza, era stato disposto un sequestro. “Una ditta che lavorava pistacchio siriano e turco credo, ma soprattutto siriano, e che fa un prodotto semilavorato, e in etichetta metteva ‘prodotto e confezionato a Bronte’. Noi comunque abbiamo eseguito il sequestro solo che abbiamo perso al Tribunale del riesame che ha accolto il ricorso della ditta”.
Altra azienda, stessa spiegazione a fronte della presenza sul prodotto del marchio “Bronte”, nonostante, nelle parole del giornalista, “a quanto avevamo capito, non doveva essere possibile se non è DOP certificato”. “La parola ‘Bronte’ la puoi scrivere perché è indicata tra le bandiere come luogo di produzione, quindi è staccato dalla dicitura ‘pistacchio’ e dalla dicitura che possa coinvolgere o dare qualche confusione al consumatore. Non è che la parola ‘Bronte’ sia illegale”. Così Claudio Luca, titolare dell’azienda “Bacco”. “Il disciplinare – continua – dice che dove c’è la parola principale, cioè l’indicazione che può essere croccante, che può essere pesto, la parola del luogo di produzione deve essere staccato, con caratteri più piccoli, in modo da non ingenerare confusione”.
Eppure le regole per evitare che il nome di Bronte venga associato a pistacchio estero ci sarebbero. A spiegarle è Dario Dongo, avvocato esperto di Diritto alimentare. “Quando un prodotto viene presentato come ‘made in’, made in Italy, made in Sicily, made in Bronte, ma l’ingrediente primario ha invece un’origine diversa, si dovrebbe dare conto della diversità tra il paese di origine, ossia il luogo dove il prodotto è stato realizzato, e il paese di provenienza delle materie prime”. Regole che però, come ha concluso dallo studio Milena Gabanelli, da cinque anni deve farle applicare la Commissione Europea ma non lo fa, ingenerando una situazione che non riguarda solo il pistacchio DOP di Bronte ma tanti prodotti tipici italiani.