Lo sentiamo fraterno questo cuore di maialino che comincia a battere all’impazzata, all’arrivo della presunta pantera, fantasma più che felino in questo crepuscolo palermitano, attraversato da strani segni d’incombente Apocalisse. E sì che ne mangiamo di carne di maiale, ma il corpo del maialino, in quel caso, arriva sulla nostra tavola depurato dal sangue della sua tragedia intima e materiale. Arriva come cibo. Se lo vedessimo muoversi nello scannatoio ci nutriremmo soltanto di bacche.
E dunque, quando questo povero “Soldato Pig” (l’esca in trincea per stanare la pantera) è ancora nella sua identità di persona – e gli animali, come sa chi intrattiene con loro rapporti fruttiferi di affetto, sono persone – non possiamo non trepidare per lui, a dispetto dell’ipocrisia del coltello e della forchetta. Non possiamo non palpitare per la sua innocenza di creatura al cospetto delle fauci della belva. In effetti, la Forestale dà ampie garanzie circa l’incolumità del porcelletto prescelto per fare da cavia. Ci saranno uomini con carabine intorno. A questo punto, la palpitazione si sposta e il sorriso si spegne. Uomini con le carabine esposti al pericolo, magari peggio del maialino. Però nessuno se n’è ricordato nelle ore di apprensione per il piccolo suino incanalato in una minuscola gabbietta che dovrebbe difenderlo dagli assalti ungulati di un felino impaurito e affamato.
La storia della pantera di Palermo ha forse il merito letterario di avere svelato i meccanismi di certe psicosi metropolitane. Però, con crescente ansia, ci rendiamo conto che sta abbandonando i toni della farsa che pure noi abbiamo calcato all’inizio per sdrammatizzare. E’ una cosa seria. Là fuori ci sono un maialino, una manciata di esseri umani e una pantera. Rischiano tutti qualcosa. E nessuno di loro merita di farsi male. R.P.