Si può parlare di morte, come se fosse davvero una cosa della vita, senza mettere in campo esorcismi e scongiuri? Si può parlare della propria morte, scavalcando l’imbarazzo di non saperla dire? E’ già complicatissimo dire quella degli altri, specialmente se ci riguarda, ma si può azzardare un avvicinamento dalla lontananza, sovrapponendo esperienze e parole, mischiando destini irriducibili. Si arriverà a un’approssimazione per difetto, che non penetra il mistero della relazione intima tra un uomo – non un individuo generico, ‘quell’uomo’ – e il suo tramonto. Tuttavia siamo già nel campo di una narrazione possibile, di uno scambio, per quanto insufficiente.
La propria morte non si può narrare. Immaginiamo cosa dire e come dirlo nell’evento previsto e imprevedibile della scomparsa di un essere umano a noi caro. E noi? Cosa dovremmo dire, quando non potremo più dirlo? Eppure c’è un sentiero limite che va affrontato. La nostra libertà di scegliere di morire il meglio possibile, con dignità, considerando ‘la porta dello spavento supremo’ come un passaggio fisico e psicologico da gestire, da cominciare a preparare con calma. Il problema delle cure palliative e della terapia del dolore è stato affrontato al don ‘Bosco Ranchibile’, a Palermo. Una questione cruciale. Alla tavola rotonda c’erano due medici sensibili: Giorgio Trizzino e Roberto Garofalo, da anni impegnati su un confine etico e scientifico difficilissimo. E c’era un grande personaggio, il professore Sandro Spinsanti, un pilastro del settore a livello internazionale. Appuntamento organizzato dalla Samot, sigla che raccoglie tante persone che sanno colorare di speranza le ore più estreme.
Non è stato un convegno scientifico, con dati, diapositive e statistiche. Piuttosto, si è trattato di una chiacchierata apertissima. All’inizio protetta da una leggerezza da dissimulazione che invariabilmente accompagna discussioni tanto coinvolgenti. Poi, via via scongelata, liberata dal gesso dei pregiudizi, per scoprire insieme che della morte, finché si è vivi, si può anche ridere. E che il “finché si è vivi” riguarda ogni secondo disponibile, non per l’accanimento, per l’accettazione e la misura personale di una transizione che non ha eguali. Si muore male in Italia. Malissimo in Sicilia. I resoconti di chi si occupa del problema sono evidenti. Non c’è abbastanza cultura. Non c’è un rapporto chiaro tra medici e familiari, se il viaggiatore preso in una parte indicibile del suo cammino, non ha più una volontà da esprimere.
Il pregiudizio è doppio. Talvolta, i camici bianchi si limitano a proteggere la vita, considerandola pienamente nella definizione ciò che va guarito. Se non c’è guarigione, non c’è vita vera. Resta la discreta sorveglianza di un corpo che va lentamente alla deriva, adornato dagli interrogativi del suo spirito. Siamo soprattutto noi – i semplici della sanità e non i medici – gli arretrati, digiuni di consapevolezza e di lucidità nel considerare il trapasso alla stregua di una separazione, di una reciproca negazione. Prima, appunto, c’è la vita. E poi c’è la morte. Cose che per noi, non hanno parentela. Capire l’errore è essenziale. Capire cioè che possiamo cominciare in questo momento a parlare della nostra morte, non per programmarla: per tentare di renderla naturale e conseguenziale. Sarà già un bel passo in avanti quando giungeremo al punto cruciale: gli occhi che si chiudono non perdono il loro sguardo, né le magiche connessioni che hanno legato la vista al cuore.