PALERMO – Alcuni anni fa. Il magistrato entra con il sigaro acceso a bordo della macchina di scorta. L’agente gli fa notare che l’aria è irrespirabile. Per questa volta, solo per questa volta, l’uomo scortato lo spegnerà. Per il futuro è meglio che l’autista si organizzi.
Storie di ordinaria antimafia blindata. Blindatissima, a giudicare dai numeri. Nella sola città di Palermo ci sono 125 personalità protette da più di seicento angeli custodi fra poliziotti, carabinieri, finanzieri e uomini del Corpo forestale dello Stato. Perché una scorta è per sempre e non si nega a nessuno. Siano essi magistrati, politici, autorità varie – ed eventuali – non importa se in un’aula di giustizia non ci si mette piede da una vita, o se si è scritto o detto qualcosa contro i boss decenni fa.
Perché il conto con la mafia, si sa, è sempre aperto. E poi ci sono in nuovi scortati in un città dove le poste fanno fatica a smistare le lettere di minacce recapitate a dritta e a manca. Dove persino una scritta sul muro provoca fibrillazione. Tutto lecito, con la vita non si scherza e il passato di morte e sangue è indelebile. È lecito, però, chiedersi pure se ogni tanto le indagini siano riuscite, specie di recente, ad individuare gli autori delle minacce. Intanto il numero delle personalità scortate nella sola Palermo è salito a quota 125.
Lo scandalo sui beni confiscati che ha travolto l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, ha un capitolo che i finanzieri definiscono “impiego della scorta per fini non istituzionali”. È lo stesso Csm, nell’atto di accusa nei confronti dei magistrati palermitani, a centrare il cuore della questione parlando di “soddisfazione di esigenze private”. Macchine blindate sfrecciano per la città come se fossero un servizio Taxi. Gli agenti passano in profumeria a ritirare il dopo sole oppure in lavanderia per l’abito. È più opportuno prelevare la merce in negozio piuttosto che, come prevede il regolamento, andare a casa del magistrato, farlo scendere e accompagnarlo in profumeria. Una ragione di opportunità dettata dalla sicurezza.
Mettiamoci nei panni di un agente. Gli hanno detto di seguire giorno e notte un giudice. Stesso compito tocca ad altri sei o sette colleghi che si dividono il turno. Hanno il dovere di proteggerlo, di evitare che la mafia lo uccida, che blocchi con il piombo o le bombe il suo lavoro. Basta fare un giro nei corridoi del Palazzo di giustizia per capire che gli agenti ci credono davvero in ciò che fanno. Gli uomini delle scorte non hanno stipendi da favola. Nessuno di loro è contento di stare al sole – e a Palermo il sole di agosto picchia parecchio – in attesa che il magistrato finisca di fare il bagno in piscina o al mare. Oppure al freddo davanti a un ristorante. Magari a Palazzo Brunaccini, l’albergo della famiglia Cappellano Seminara dove cucinava il figlio chef di Silvana Saguto. Con il loro lavoro garantiscono legittime finestre di normalità alla vita blindata di coloro che sono chiamati a proteggere. A gennaio 2014 quando seppero dell’allarme attentato alla Saguto, quando sentirono che autorevoli ministri erano preoccupati per le sorti dei giudici che sequestravano i beni dei mafiosi, e non solo al Tribunale di Palermo, quando a casa del magistrato furono montate le telecamere di videosorveglianza e intensificati i controlli dell’esercito gli uomini della scorta fecero la loro parte, rinunciando persino a tornare a casa. Salvo poi, scoprire, mesi dopo, che la minaccia attentato era stata resa attuale per controbilanciare, dicono gli investigatori, gli attacchi mediatici contro la Saguto.
Il loro spirito di abnegazione, in alcuni casi, è stato scambiato per servilismo. Qualcuno ha creduto che avessero smesso la divisa d’ordinanza per indossare quella di cameriere (con tutto il rispetto per chi fa questo mestiere). Che il loro lavoro non dovesse limitarsi alla doverosa e necessaria protezione dell’incolumità fisica. Silvana Saguto non era tenera con i suoi angeli custodi che ieri sono stati tutti cambiati. “Quelli guidano, non fanno mai un cazzo, almeno un giorno alla settimana, ogni tanto, lavorano… che passano il tempo a tampasiare”, diceva dopo avere affidato ad un uomo della scorta una commessa “non istituzionale”. Qualcuno dei “tampasiatori” aveva fatto sapere a chi di dovere di non avere più alcuna intenzione di proteggere la Saguto, che rimane un giudice sotto scorta. Si è sentito tradito. Ha aperto gli occhi e ha capito che la divisa da cameriere non è la sua. E neppure quella di autista. E oggi l’aria viziata da quel sigaro, emblema dello spirito di sacrificio tradito, è diventata soffocante.