Mi è capitato di alzare gli occhi al cielo. Il mio corpo intrappolato nella lamiera della macchina, a sua volta chiusa nell’ingorgo di un mattino, arrabbiata matrioska in un normale giorno di casino palermitano. Sia benedetto il traffico che ci costringe a sollevare gli sguardi in cerca di scampo, oltre il finestrino, per inciampare in una luminosa e inaspettata pienezza.
C’era un cane nero al quarto piano di un palazzo giallo, dentro una tenera terrazza piena di gerani. Lui scodinzolava e i gerani si muovevano al vento. Il cielo era una conca azzurra accanto alle antenne tv. Il sentimento gioioso della vita mi ha schiaffeggiato, come davanti a uno spettacolo nuovo. Era diverso solo il modo di osservarlo, dal di fuori, non dal di dentro, come una visione densa, tridimensionale, non più il riflesso dello specchio che per ognuno di noi è la misura della propria relazione con l’esterno.
Quando il corpo e l’io rimangono in trappola c’è sempre l’opportunità di sorvolare. Esci da te e ti accorgi che ogni attimo ha un respiro immenso e un significato completo, il suo fremito incommensurabile. Non è più la tua vita suprema e sola l’angolo da cui scrutare con il cannocchiale, è il girotondo di tutti, sganciato dagli affanni e dalla fatica di dovere portare un cammino che comincia e termina in noi stessi. Difficile scriverlo, complicato raccontarlo.
Ho ancora attaccati i frammenti del mio volo, il viaggio libero oltre i confini, la scoperta che esiste un cane nero al quarto piano di un palazzo giallo, su un balcone con i fiori, senza nemmeno il sospetto di me. Che leggerezza improvvisa. Cogliere il fiato del mondo nella sua purezza, scrostata dalle “nostre” consuetudini e dai paraocchi dell’abitudine che tratta ogni cosa come le figure di un libro già noto, significa prepararsi a dissolversi e tornare come pulviscolo nell’universo. Vuol dire perdere il nome in uno stupore infinito, nella saggezza dell’esistenza che esiste ed è bellissima, a prescindere dalle braccia, o dal dolore, o dall’amore della scorta personale. Non più soggetti: oggetti. Ci sono davvero dolori, amori, cani, balconi e fiori in giro. Toccarli sul serio, entrare in loro e poi tornare è la strada che conduce dritti nel cuore del tempo e dello spazio.
Un colpo di clacson ha spezzato l’incantesimo di un dio benigno. Mi sono smarrito di nuovo nella piccolezza delle mie piaghe e dei miei reumatismi.
Perché qualcuno si uccide (alcuni, non tutti)? Forse perché è incapace di evadere da se stesso e meravigliarsi. Perché non ha più la speranza di un orizzonte dopo il suo sguardo, o di un cammino di fianco al suo. Oggi noi parliamo di suicidio e di male di vivere, argomento spinoso che non piace ai lettori. Ma tentiamo di farlo – e crediamo sia giusto farlo – dal lato dell’amore e delle terapie possibili, pensando ai ganci che trattengono un uomo sul fiore della terra in cerca di un raggio di sole. Mai disperare, nella tagliola di una notte oscura. Mai pensare che tutto finisca dove finisce l’ombra delle ciglia. Mai credere che il nostro cuore sia un soldato disperso, la retroguardia di un esercito lontano, un muscolo incondivisibile, scolpito nella sua solitudine. Ovunque ci sono cieli e gerani, i simboli della vita che si offre come è. Basta alzare gli occhi. Ovunque ci sono palazzi gialli, cani neri e balconi infiorati al vento.