C’è chi fa un selfie con la Regina e chi, invece, con la Morte. Questione di fortuna, direbbe qualcuno. O forse di equilibrio. In Irlanda del Nord, un ragazzino è balzato davanti alla regina Elisabetta e con il cellulare in mano ha realizzato un selfie “regale”. Sulla strada verso il il lago di Ozarks, invece, l’americana Collette Moreno, dopo essersi scattata un selfie con l’amica, è rimasta uccisa a causa di una manovra spericolata. Equilibrio o fortuna, poco importa. Sono altre le parole che rimbalzano tra i social e nella testa. Condivisione, appartenenza, conferma, comunicazione, riconoscimento, eccesso. Ecco gli ingredienti che danno vita alle “social mode”.
Ma qualcosa non torna. Dietro i sorrisi felici, ad esempio, si intravede la richiesta di amore. Non basta mai, l’amore. Siamo affamati, ma non siamo disposti a cercarlo fuori, per strada. Perché la strada fa paura, con i suoi pericoli e la sua cronaca nera. E allora preferiamo illuderci e credere che sia tutto racchiuso dentro lo smartphone: specchio magico che riflette la nostra immagine e raccoglie consensi ai quali affidiamo il compito di sollevarci il morale e persino l’anima. Ma è un’illusione. E lo scontro con la realtà è un attimo. A volte regale e stupefacente. Altre, doloroso e terrificante.
Lo specchio riflette ciò che siamo: viaggiatori anonimi a cui è stata data una sola strada da percorrere. Ignoriamo i paesaggi e gli scorci che incontriamo lungo il cammino. Procediamo dritti verso una meta di cui non conosciamo la natura. Chi ha il coraggio di scegliere diversamente, vive in esilio. La rete non ammette assenze. La presenza è fondamentale. Se non ci sei, non esisti. Antonio, ad esempio, non c’è. Se cerchi il suo nome su facebook non lo trovi. Lui è un ragazzo di 25 anni con la barba appena accennata e un sorriso incerto, un po’ timido. Studia filosofia. E ha fatto una scelta. Non possiede smartphone o Iphone. Non ha twitter e neppure whatsapp. Utilizza il Pc per fare ricerche. Suona la chitarra, e ha un vecchio cellulare. Lui legge, suona e dipinge, mentre i suoi coetanei chattano e immortalano la felicità in uno scatto da condividere su Instagram.
Antonio dice che la felicità dura un attimo e che passa veloce. Non fai in tempo a prendere il cellulare e scattare la foto che la felicità è già passata, e allora quello che immortali è un ricordo sbiadito di ciò che sarebbe potuto essere, ma non è stato.
“Quando mi sveglio e trovo il biglietto di mia madre – racconta – in cui mi augura una buona giornata, accanto alla colazione che mi ha preparato prima di andare a lavoro, io sono felice. Allora mi siedo, leggo il biglietto e faccio colazione. Tutto questo non avrebbe lo stesso sapore se pensassi al selfie”. Gli amici lo definiscono asociale. Eppure, lui ha una gran voglia di comunicare.
“È successo una mattina – dice – stavo passeggiando per strada e ho visto i miei coetanei camminare con il capo chino e lo sguardo fisso sullo schermo del cellulare. È stato in quel momento che ho fatto la mia scelta. Ho scelto di tenere il volto sollevato e guardare la gente negli occhi. All’inizio è stato difficile. Non essere connessi significa condannarsi alla solitudine. Ma oggi è meraviglioso. Non ho l’ansia dei like, della condivisione compulsiva, dell’apparenza effimera. E se devo dire qualcosa a un amico, lo vado a cercare a casa”.
“La consideri una scelta definitiva?”. Antonio sorride. “Quella non è vita vera – risponde – è inganno. All’inizio i social potevano anche essere qualcosa di innovativo e positivo, ma poi è subentrato l’eccesso. Oggi rappresentano una droga che ti distolgono dalla realtà. Io preferisco essere lucido”. Lucido e solo. Vecchio Antonio. Ma forse ha ragione lui. Di tutti i selfie e le manie che ci accompagnano ogni giorno, di quella vita raccontata in uno status e che scorre tra sorrisi e menzogne sulla timeline di facebook, resta solo un ricordo sbiadito di ciò che sarebbe potuto essere. Se Collette Moreno, ad esempio, avesse dimenticato il cellulare, forse avrebbe avuto un selfie in meno, ma avrebbe scoperto che la vita era lì, accanto a lei.
E chissà, magari anche Ross Cummins e Jonny Byrne, i due ragazzi morti per aver praticato il NekNominate, la moda del web che consiste nel bere grandi quantità di alcolici in un solo fiato, avrebbero compreso che lo sguardo o la parola di una persona reale, appena conosciuta per strada, può essere più inebriante di una bevuta on line.