CALTANISSETTA – Il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta Valentina Balbo ha archiviato l’indagine a carico del medico Antonino Cinà, fedelissimo del boss Totò Rina, accusato di avere avuto un ruolo nella strage di via d’Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta.
Cinà è stato condannato a Palermo a 12 anni di carcere al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Nel 2019 i pm di Caltanissetta lo indagarono per l’attentato a Borsellino ipotizzando che avesse avuto un ruolo nella decisione di anticipare la strage dovuta al timore che, scoperta la trattativa che pezzi dello Stato avevano avviato con la mafia, il magistrato potesse impedirne il prosieguo.
Secondo il gip, però, dall’indagine non sarebbe emerso nessun elemento utile a concludere che Cinà abbia ricoperto un ruolo di vertice all’interno di cosa nostra tanto da partecipare a decisioni importanti come quelle sugli omicidi eccellenti. Né, a dire del gip, sarebbe stato accertata la partecipazione di Cinà alla riunione che deliberò la strage di via d’Amelio. Il medico era difeso dagli avvocati Giovanni di Benedetto e Federica Folli.
Il processo nasceva dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Un percorso di collaborazione, quello del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, che il giudice definisce “tormentato e a tratti anomalo”. È stato Ciancimino jr a riferire che Cinà era l’intermediario fra i boss e i rappresentanti delle istituzioni, ai quali avrebbe consegnato il papello, e cioè le richieste avanzate da Totò Riina per fermare le stragi.
Un tassello chiave della ricostruzione dell’accusa sulla Trattativa presuppone che Borsellino avesse scoperto l’esistenza del patto sporco. Non era disposto ad accettarlo e allora i boss decisero di accelerare l’organizzazione della strage di via D’Amelio per eliminare il magistrato.
Giovanni Brusca riferì di avere saputo da Totò Riina che “qualcuno si era fatto sotto”, che le richieste del Papello erano state dichiarate “esose” dagli uomini dello Stato e che dunque “serviva un altro colpetto”. E cioè dopo Giovanni Falcone bisognava ammazzare pure Borsellino.
Sul punto, però, i pubblici ministeri di Caltanissetta, che hanno sviscerato le vicende della strage di via D’Amelio, fino a radere al suolo i processi basati sulle dichiarazioni dei falsi pentiti, dimostrano di avere un’idea opposta a quella dei colleghi di Palermo.
Infatti scrivono che “può dirsi estremamente chiaro come Brusca abbia collegato solo in maniera deduttiva le considerazioni che gli aveva fatto Riina sull’ostacolo da superare alla persona del dottore Borsellino, deduzione che però allo stato non è assistita da alcun elemento oggettivo in grado di farla assurgere a dignità di prova”.
È un argomento su cui però il giudice Balbo non interviene, “visto che non è compito di questo procedimento anche per le finalità che gli sono proprie porre pietre miliari in ordine ad una tematica sì complessa che ha segnato una delle pagine più oscure l’ultima storia italiana”. Si è concentrata solo sul ruolo di Cinà, per il quale è arrivata l’archiviazione.