TRAPANI – Due uomini al servizio del latitante Matteo Messina Denaro. Sono Francesco Pace, 81 anni, originario di Paceco, capo della famiglia mafiosa di Trapani dal 2001 e sino al giorno del suo arresto, compiuto dalla squadra mobile nel novembre del 2005, e Girolamo “Luca” Bellomo, palermitano, 45 anni, arrestato dai carabinieri di Trapani e dai Ros nel 2014. Sono stati scarcerati da pochi giorni. Oggi sono perfettamente liberi, senza alcun vincolo sulla loro libertà. Le nuove norme del codice antimafia impediscono quella che una volta era l’automatica applicazione dei provvedimenti di sorveglianza speciale. I giudici dovranno rivalutare le loro decisioni.
Chi sono Pace e Bellomo
Tutti e due sono legati al latitante Matteo Messina Denaro, ricercato dal giugno del 1993. Secondo le indagini fu proprio Matteo Messina Denaro a indicare Pace a capo della cosca trapanese dopo l’arresto nel 2001 di Vincenzo Virga, ancora oggi in carcere a scontare alcuni ergastoli. A unire Bellomo a Cosa nostra (condannato per mafia, rapina e traffico di droga) sono anche legami familiari. Genero, nipote e cognato di boss mafiosi. L’uomo è sposato infatti con l’avvocato Lorenza Guttadauro, figlia del mafioso Filippo e di Rosalia Messina Denaro, sorella di Matteo, a loro volta genitori anche di Francesco Guattadauro, nipote diretto del capomafia di Castelvetrano, anche lui arrestato e in carcere per mafia. I pentiti hanno raccontato della predilezione dello zio Matteo per il nipote.
Liberi e senza vincoli
I due hanno lasciato il carcere sebbene non fosse ancora decorso il periodo di carcerazione per le condanne subite. Pace stava scontando due condanna per 25 anni di reclusione, dieci gli anni inflitti a Bellomo. La buona condotta e altri benefici accordati dai rispettivi giudici di sorveglianza, hanno accorciato le loro detenzioni. Pace è così uscito dalla casa di reclusione di Spoleto, Bellomo da quella di Terni. Liberi e senza alcun vincolo. Nonostante sono risultati destinatari di misure di prevenzione e di applicazione della sorveglianza speciale, disposte durante la loro carcerazione, le norme introdotte con il nuovo codice antimafia non hanno fatto scattare l’applicazione. Restano quindi liberi di muoversi. I giudici (competente è il Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani) dovranno rivalutare la loro pericolosità sociale: dovranno decidere se applicare o meno le misure di prevenzione già decise.
Pace e la mafia silenziosa
Contro Pace il Tribunale delle misure di prevenzione aveva deciso cinque anni di sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno, a carcerazione conclusa. Decisione che divenne definitiva nel 2009 e scaturita dalle proposte di applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale avanzate dal questore e dalla Procura di Trapani nel 2006. Prima del suo arresto nel 2007, Pace era stato già sottoposto a tre anni di sorveglianza speciale. Imprenditore, nella ‘cupola’ si era attorniato di altri imprenditori e con lui la mafia tornò a inabissarsi a Trapani. Niente attentati e niente richieste di pizzo, come era accaduto durante il periodo in cui a capo della cosca c’era Virga.
La vicenda della Calcestruzzi Ericina
La strategia di Pace era quella di infiltrarsi nei pubblici appalti imponendo le forniture. Tentò anche di appropriarsi della Calcestruzzi Ericina mentre l’impresa era stata già confiscata a Vincenzo Virga. Il suo tentativo di farla fallire e di acquistarla così per pochi euro, però fallì perché intervenne l’allora prefetto Fulvio Sodano a “salvare” l’azienda, che si stava impoverendo via via per l’assenza di clienti che su ordine di Pace si erano rivolti ad altre imprese per l’acquisto del calcestruzzo. L’azione di Sodano fece saltare i nervi a Pace che, intanto intercettato dalla squadra mobile, comunicò ai suoi accoliti che quel prefetto, appellato in malo modo, sarebbe stato presto trasferito. Cosa che puntualmente avvenne: Sodano nell’estate del 2003 dovette lasciare Trapani, trasferito ad Agrigento dal Consiglio dei ministri (presidente era Berlusconi e sottosegretario al Viminale l’allora senatore trapanese Tonino D’Alì). Un trasferimento improvviso e che oggi costituisce uno dei capitoli che hanno portato alla condanna a sei anni di D’Alì per concorso esterno in associazione mafiosa.
Bellomo e quel legame con Matteo Messina Denaro
Bellomo, che di professione faceva il rappresentante di una importante ditta per la forniture di arredi per grandi alberghi, nel 2019 era stato raggiunto dalla sorveglianza speciale per un periodo di quattro anni. Il suo ruolo dentro Cosa nostra inizialmente fu quello di spalleggiare il cognato, Francesco Guttadauro, nel garantire il sostentamento economico della latitanza di Messina Denaro, poi crebbe dopo l’arresto di Guttadauro, col quale c’era anche stato qualche attrito, mai sfociato in liti per il rapporto di parentela che li univa, in quanto Guttadauro, come riferì per esempio il pentito Lorenzo Cimarosa, non gradiva certe intemperanze del cognato. Bellomo non solo era dentro certe faccende mafiose ma per alcune divenne l’artefice, passando ad occuparsi di appalti e riuscendo a diventare quello che lui stesso andava dicendo nei summit anche palermitani, “il portavoce della famiglia di Castelvetrano”. Venne condannato per mafia, traffico di droga e anche per avere organizzato una rapina: fu sua l’idea di camuffare l’irruzione in un’azienda, la AG Trasporti, come se fosse un intervento delle forze dell’ordine. Il clan infatti indossò le pettorine in uso alla polizia.
Storie di violenza
Mafia e violenza nel suo curriculum. Non esitò a provocare gravi ferite e lesioni ad un soggetto reo di aver compiuto un furto a casa di Giuseppe Fontana, detto Rocky, con alle spalle una lunga detenzione, fedelissimo anche lui del capo mafia latitante, recuperando così l’ingente refurtiva. Per mettere in atto il suo piano anche in questo caso Bellomo fece ricorso ad un distintivo in uso ai carabinieri, fingendo un controllo riuscì così a fermare il malcapitato, aggredito dopo con una mazza da baseball.
“Qui tra poco arrestano pure le sedie”
Nella corrispondenza trovata nell’ultimo covo usato dal boss Bernardo Provenzano, inoltre, venne trovato un pizzino di risposta di Matteo Messina Denaro. Riguardava la situazione all’interno del mandamento mafioso di Trapani. Erano i primi anni duemila e il boss di Castelvetrano, firmandosi Alessio, si lamentava per i continui arresti: “Qui tra poco arrestano anche le sedie”. Molti anni sono trascorsi e la realtà di oggi vede parecchi degli arrestati tornati liberi. Pace e Bellomo sono gli ultimi a tornare liberi, e prima di loro molti altri. Anche se gli arresti sono continuati, gli ultimi rapporti delle forze dell’ordine indicano in oltre 300 i detenuti per mafia tornati in libertà. Tra questi anche persone che avevano ergastoli da scontare, come l’architetto mazarese Calcedonio Bruno, il cui nome è citato nelle relazioni sui legami mafia- massoneria. Oggi vive nel nord Italia.