L’apice della tensione si tocca quando il placido vecchietto con la la cravatta emette un suono di guerra, come il soffio di Orlando nell’Olifante. Poi urla: “Sono cardiopatico”. Poi si lancia contro lo sportello dalla serrandina abbassata e batte i pugni contro il vetro. Ospedale Civico, sala d’attesa per il pagamento dei ticket. Un giorno di sereno caos. All’una c’è gente tramortita, che racconta di essere lì dalle otto del mattino.
I vecchi sono le vittime predestinate. Hanno i piedi gonfi per avere scarpinato in lungo e in largo. Una si lamenta con tono flebile: “Mi hanno detto di andare lì e di tornare qui, lei – dice all’impiegata – mi dice di andare là… Io non ne posso più”. Qualcuno protesta con una gentile signorina addetta alle informazioni. Lei si scusa e si accora: “C’è caos. Non è colpa mia. Al mio collega stamattina gli hanno dato un cazzotto in faccia. Io ho paura”.
La sala del ticket (qui si prenotano pure le visite) è graziosa. Alle pareti ci sono quadri futuristi dove splende un sole con un occhio solo. Gli sportelli sono aperti. Eppure, la gente racconta di lunghissime attese. Il tabellone sputa i numeri con una lettera. Una suora chiede: “Io ho la lettera K? Quando esce la K?”. Il resto delle persone, coinvolto nel Bingo della sanità, replica con un’occhiata muta. Chi scrive ha il numero K032. Mi sono piazzato in fila all’una meno un quarto. Ho la visita alle due.
A un certo punto scoppia il clima da presa della Bastiglia. Cambia il turno degli sportellisti. Quelli che hanno fatto la mattina accennano a chiudere la piccola serranda blu che li separa dal mondo. Il vecchietto cardiopatico esplode come un mortaretto: “E’ uno schifo, sono qui dalle otto, sto male, sono cardiopatico”. E si accascia su una sedia. Una gentile impiegata dai capelli biondi raccatta la sua pratica per misericordia. Un’altra donna allo sportello ingaggia un duello verbale col pubblico inferocito. I presenti vorrebbero che non smontasse prima della sostituzione. Lei ruggisce: “Io non ne posso più”. Il sottoscritto interviene con impeto: “Signora, si contenga, guarda che lei qui rappresenta la sanità”. La risposta è un sibilo iracondo: “Ma che volete da me? Basta! Basta!”. In effetti, c’era un “si contenga” di troppo. La calca si addensa. Le serrande si abbassano, mentre gli utenti della sanità siciliana in sala alzano i pugni con un’enfasi da rivoluzione di ottobre. Le tapparelle si rialzano. Ecco l’altra squadra. Tocca a me.
Avanzo con una certa sicumera, stringendo il bigliettino k032, come se fosse un tagliando della lotteria. La signora allo sportello guarda la mia documentazione e respinge tutto con fastidio. Dice alla collega qualcosa come: “Io non sono esperta, è inutile”. Occhiate imbarazzate tra i colleghi, dietro l’acquario. Corre in aiuto la signora bionda gentile che aveva già soccorso il vecchetto. Allo sportello accanto, lotta furibonda tra un uomo con i capelli bianchi e l’impiegata. Lei gli spiega che c’è stato uno sbaglio nelle carte, forse per colpa del medico. Lui si contiene, bestemmia sottovoce, supplica. E’ tutto inutile. Dovrà ricominciare. Finalmente la mia pratica riceve il timbro agognato. La signora bionda: “Voi non dovete arabbiarvi, qui non funziona niente. Lei è giornalista? Scriva un articolo. Scriva, per piacere”. Un’occhiata all’orologio. Le due e venti. Come non accontentarla?