Un 'prigioniero' e il finale di partita | Il senso di Marcello per il carcere - Live Sicilia

Un ‘prigioniero’ e il finale di partita | Il senso di Marcello per il carcere

Le parole di un essere umano. Che non riceverà pietà.

Marcello Dell’Utri è un vinto senza remissione di peccati. Esiste forse una sconfitta peggiore dello sguardo che corteggia i suoi penultimi giorni, attraverso il loro sgocciolare, tra le grate di una cella?

M. D.U. lo sa, giacché è sempre stato un uomo di attente letture. Oggi, legge soprattutto se stesso, è lui il libro, e – in una intervista al ‘Corriere’ – riconosce: “Il sazio non crede a chi è digiuno. Ai politici i problemi delle galere non interessano, e io stesso in Parlamento non me ne sono occupato. Sono dovuto arrivare qui per capire. Mi trovo qui dentro a settantacinque anni, vedo avvicinarsi il finale di partita e sinceramente mi dispiace passarlo qui anziché con la mia famiglia, i miei nipoti e i miei più cari amici”.

Siamo su un terreno minato, quando si scrive dell’ex senatore di Forza Italia, condannato a sette anni per concorso esterno, perché, nelle equazioni del nostro sanguinario dibattito pubblico, la galera è sempre la paga ben meritata del nemico, sempre un’ingiustizia per l’amico. Le sentenze rispecchiano, nella partigianeria di chi le commenta, il contraltare dell’astio e dell’affetto, quasi mai il fallibile e necessario distillato di scienza e coscienza.

Siamo su un campo accidentato, sì. Dell’Utri vuol dire Berlusconi, nella fabbrica dell’odio che non conosce chiusure settimanali. Molti – leggendo, sapendolo da tempo in vincoli – avranno sorriso compiaciuti, come per un miraggio che si avvera per interposto condannato. Non fu possibile ammanettare Silvio? Marcello, forse, può bastare a pareggiare il conto.

Qui c’è, dunque, un bersaglio di furori e rancori che, come tale, non avrà il diritto alla comprensione che non rinuncia al rigore del giudizio. Non conosciamo vie di mezzo tra le campane in festa e la ghigliottina, a torto o a ragione.

Eppure, dal senso del carcere di Marcello Dell’Utri – come dei suoi anonimi compagni di esilio – emana una luce sofferta, in un pozzo di buio, che invoca rispetto, proprio perché profondamente umana. Tutti, prima o poi, saremo prigionieri di qualcosa, colpevoli o innocenti. Tutti prima o poi cercheremo uno slargo, una fessura, un sollievo, nel doloroso sgocciolare dei giorni, attraverso ruggine e grate.

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