Chi, come Cesare Pavese, ha definito un romanzo sbagliato ‘I vecchi e i giovani’ denunziandone la debolezza del racconto storico perché farcito da antefatti sociali frantumati in figure la cui legge interiore è la solitudine, non ha ricordato che in Sicilia l’avvenimento, per diventare tale, si nutre del difficile compito di storicizzare l’esistere.
Siamo in presenza di un racconto di vite che, insieme o ciascuna contro l’altra, tracciano il tentativo di affrancarsi dalla grave crisi economica, che ha conosciuto la Sicilia dopo il 1870.
“Viviamo in un tramenìo vertiginoso che da tutti i lati ci preme, urta e logora. Par che tutto tremi e tentenni… Siamo certamente alla vigilia d’un enorme evento epocale.” – così scrive Pirandello sulla Nazione letteraria, già nel 1893, evidenziando il senso storico dei Fasci siciliani.
Nelle tormentate pagine, colme di apparente scetticismo antiprogressista, Girgenti,“città di corvi e di campane a morto”, è la zona prima – così la definisce Giacomo De Benedetti nei suoi ‘Saggi critici’, ossia il luogo della metamorfosi che, toccato appena, consuma la trasformazione delle creature in personaggi.
Girgenti che, dopo essere stata l’Agragas dei Greci e l’Agrigentum dei Romani si era trasformata in quella Kerkent dei Musulmani lasciando “negli animi e nei costumi della gente accidia taciturna, diffidenza ombrosa e gelosia.”
La realtà storica del tempo non è matura per concepire un programma di rivoluzione attraverso gli ideali del socialismo (il partito era nato nell’agosto del 1892) perché permeata da una struttura sociale feudale, con una borghesia in ascesa e un proletariato tanto incolto che Labriola denunzierà come idiotismo delle campagne.
“Il popolo non può capire la tua idea perché, per disgrazia, l’idea non ha occhi, non ha gambe e non ha bocca” – così Pirandello fa dire a Preola, mentre Nocio Pigna, di contro, promotore della sezione dei Fasci, crede ai nuovi impulsi progressisti: ”Tutti pronti e seri… quattromila… compatti… parevano la terra stessa, la terra viva, capisci? Che si muove e pensa… ottomila occhi che sanno e che ti guardano”.
Accanto alla plebe, ancora alla ricerca di una fisionomia e di un ruolo, appaiono i due feudi di Valsania e di Colimbetra, regno dei principi Laurentano, eredi di austera e immobile nobiltà, vivificata, tuttavia, dalla saggezza di chi conosce il privilegio di pensare, senza l’onere della quotidianità.
Sullo sfondo del paesaggio narrativo un clero tanto refrattario alle innovazioni sociali che il popolo trasmetterà i simboli religiosi a quelli della rivolta, attendendo da essa i miracoli invano impetrati dalle istituzioni clericali. Di particolare delicatezza descrittiva è l’ambiente che ospita i Fasci, decorato con paramenti sacri.
Generosa di certezze e di lotta la nuova generazione in ogni espressione del ceto sociale di appartenenza: il giovane Lando Lauretano, erede della spiritualità aristocratica, l’infelice Roberto Auriti, la chiara figura di Dianella Salvo, l’impetuosa personalità di Aurelio Costa.
I vecchi e i giovani s’incontrano nel territorio di un’Italia corrotta dove “dai cieli pioveva fango e s’appiastrava da per tutto, sulle facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori e dove tutte le sere e tutte le mattine i rivenditori dei giornali vociavano per le vie di Roma il nome di questo o di quel deputato del Parlamento nazionale”.
“Zuffa di ladri che rubano di notte con mani tremanti e come ciechi; rimestano, arraffano, ficcano dentro; … Ecco, signori, i più bei nomi d’Italia. Ecco l’onore!”
In tal modo Pirandello delinea nel suo “amarissimo e popoloso romanzo” il dramma della sua generazione.
“La gioventù… Che poteva fare la gioventù, se l’avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l’espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d’ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture? Ecco l’opera dei vecchi qua, ora, nel bel mezzo dell’Italia…”
Lo scrittore abbandona i suoi personaggi all’alba della sconfitta e, seppure siano trascorsi più di cento anni in cui l’uomo ha definitivamente mutato perfino le modalità di comunicazione, lascia al lettore gli stessi interrogativi.
Rimane facile individuare ancora lo spettacolo di uguali vergogne, nuove in fisionomia ma di pari caratura. L’espiazione dei giovani appare, è vero, meno rabbiosa: molti, cittadini del mondo, ridisegnano altrove la loro storia e tanti vivono l’inebetimento del consumismo che pareggia l’idiotismo di un nuovo proletariato.
E, mentre una nuova razza di fascismo inneggia a una Patria di soli confini, noi vecchi, i migliori di noi, relegati ad un sapere privo di genesi, consumiamo errori non meno colpevoli. In noi manca la scia definitiva della storia, una spina dorsale di pensieri, la responsabilità sociale del nostro tempo tutto, il prendersi cura del futuro con voce chiara. C’è un silenzio che assorda e rende assenti. Adesso temo: saremo ricordati come invisibili, una generazione di vento e non di pane.