Quando Jesu fu tradito | Il Rosario di De Roberto - Live Sicilia

Quando Jesu fu tradito | Il Rosario di De Roberto

Una litania ossessiva dove i personaggi assumono, in un solo dire, sottomissione e magia.

INCHIOSTRO DI SICILIA
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Era nato a Napoli Federico De Roberto, ma la madre, nobildonna catanese, già da prima di raggiungere l’isola, gli aveva messo nel sangue inchiostro di Sicilia, dove trascorse la sua vita intellettuale fino alla morte.

De Roberto, come molti scrittori siciliani, aveva in qualche modo un atteggiamento di remora nei confronti del teatro che riteneva una forma inferiore di espressione letteraria, seppure convinto che “l’impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo.”

La baronessa di Sommatino, superba interprete de Il Rosario altro non è, difatti, che una traduzione per la scene dell’omonima novella della raccolta Processi Verbali.

Non ha nome la nobildonna: è Sua Eccellenza, oscura conduttrice di un rito pagano e ferocissimo: la recita del Rosario.

Nel gineceo siciliano ci si riuniva per la celebrazione corale di questa lunga preghiera e, in nome della purezza della Vergine, come di ogni purezza, si potevano commettere anche i peggiori misfatti familiari.

Era il Rosario un intrattenimento, un chiamare a raccolta, la condivisione riservata di un rito non sempre gentile, quasi mai ascetico.

C’era spesso un capo comico nella sua recita ed era la donna più autorevole che, realmente, conduceva le sorti esistenziali. Fra una posta e l’altra, con la sicurezza della guida della corona, venivano espresse confidenze, soprusi, conferme del mondo femminile, spesso tanto devoto quanto asfittico e autoritario.

Anche il Rosario di De Roberto non sfugge alla regola: è una litania ossessiva dove i personaggi assumono, in un solo dire, sottomissione e magia e in cui la liturgia della parola s’impone in una partitura benedetta dalla reclusione.

Angelina, Carmelina, Caterina si riuniscono attorno alla Madre, insieme alle donne di servizio, contadine e bambine, tutte subalterne, sotto la studiata regia dell’imperio, mai della compassione o dell’umiltà.

Fece bene Martoglio a proporre a De Roberto la rappresentazione dell’opera in dialetto siciliano, mettendolo in scena nel gennaio del 1919 al teatro Argentina di Roma, dopo la tiepida accoglienza a Milano.

Perché in tutta l’opera è sottesa l’inflessione drammatica e superba della nostra lingua: l’immenso non detto in cui, solo attraverso la modulazione della voce, si rendono evidenti i ruoli delle protagoniste con i loro sospiri, le contrazioni, le pause timide, l’assoluta assenza di qualsivoglia considerazione o attenzione per l’anima.

La scena è apparecchiata dal Cristo tradito con le sue piaghe profumate da troppo incenso di silenzio, accanto ad una Donna sempre più ascetica e assente che permette all’infelicità femminile di tradursi in una preghiera grottesca.

Cosa mai potrebbero fare queste figlie votate al Signore se il cordone della loro vita e della borsa viene tenuto da una madre dispotica, ricchissima e intoccabile?

E cosa, ancora, una contadina, una fanciulla davanti alla sentenza che dichiara morta la figlia, un tempo prediletta, per aver sposato un uomo contro la sua volontà?

Ormai, la baronessa di Sommatino ha assunto, socialmente, gli abiti neri del lutto.

E non sarà certo la comare Angiola che avverte le sorelle della morte del cognato a farle cambiare idea: nessuna accoglienza per Rosalia, seppure sia rimasta in stato di indigenza a seguito delle ingenti spese richieste dalla malattia del marito.

Non c’è speranza di perdono nella preghiera della nobildonna che, in nome della Madonna, intanto, dirige i suoi affari recitando la più efferata delle preghiere in cui conferma e consolida i suoi privilegi, rifiutando la sincera preghiera delle figlie di accogliere in famiglia almeno i tre bambini, suoi nipoti.

Jesu viene tradito, lo sappiamo. E anche Maria sembra farsene una ragione, nel dramma.

Accade così quando la parola femminile diventa condanna sterile e disperata purezza, negando la genesi, lo scambio emotivo e la contaminazione del pensiero.

In ogni luogo può celebrarsi ancora un Rosario in cui, umanamente, si crocifigge l’uomo con il silenzio assordante di chi tiene in mano la corona in nome delle proprie ragioni.

Il rito allora diventa la preghiera che non può cambiare la sorte, l’oscuro intrigo privo di affidamento, l’invocazione del potere che chiama se stesso.

Guadatevi intorno – sembra dire il drammaturgo – perché l’amore non giace mai nel culto del silenzio.

“Ci sono due modi di servire la letteratura: darle orgogliosamente capolavori o sacrificarle modestamente la nostra vita… A noi appartiene il dovere di onorare dì per dì la professione letteraria.” – scriveva De Roberto.

E questo dramma, mi sembra, renda omaggio alla vocazione più laica e lucida della letteratura siciliana.


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