Uno ha perso, l’altro non ha vinto. Tutti e due si trovano a rosolare sulla graticola delle rispettive leadership, la prima in cocci, la seconda in crisi, travolte dalla valanga gialla dei grillini.
Uno ha perso. Davide Faraone, plenipotenziario renziano in Sicilia, ovvero lo Scolari del centrosinistra di quaggiù, secondo i sussurri delle malelingue. Che c’azzecca il paragone sportivo? C’azzecca, c’azzecca… Felipe Scolari era il commissario tecnico del Brasile umiliato dalla Germania con un sette a uno a sfavore, nel mondiale casalingo, in una celeberrima e catastrofica partita. Non meno pesante è apparso lo smacco pidino nell’Isola che adesso politicamente appartiene ai discepoli di Grillo e Casaleggio. E chi c’era al comando del Pd? Chi reggeva le fila del discorso? Chi organizzava i candidati? Chi si lasciava immortalare, sorridente, con Leoluca Orlando e Dore Misuraca, neo-iscritti di riflusso e portafortuna? Faraone Davide, che iniziò il suo impegno da segretario della sezione ‘Concetto Marchesi’ in via Maltese, nel quartiere San Lorenzo, a Palermo.
Senza rincorrere per forza le note ufficiali, basta prendere un caffè palermitano nell’asse viale Strasburgo-San Lorenzo, dove il sottosegretario permanente – prima alla Scuola, poi alla Salute – cominciò a muoversi tra le stanze polverose di quella sezione di partito, per rendersi conto del suo indice di sgradimento. Quelli che lo appoggiavano, gli ex fedelissimi, ora masticano amaro. Bevono un espresso al gusto di fiele e mormorano: “Da noi nemmeno un voto prenderebbe..”.
E poi, sì, ci sono pure le parole chiodate dei comunicati e dell’eco mediatica. Gli ultimi ‘calci del mulo’ – in senso metaforico e simbolico – li ha coraggiosamente apposti Rosario Crocetta, proprio l’ex governatore che, ovunque – più recentemente dal solito amico Giletti – non fa altro che spargere sale sulle ferite del Pd. E ci sono i ‘partigiani dem’, nati dalla diaspora sulle candidature: “Per trovare un dato più basso dobbiamo arrivare al 1992, quando c’era un simbolo con falce e martello”, accusano. Faraone ha provato una sortita in replica: “La diversità è ricchezza, il tafazzismo no. È il momento della chiarezza”. L’era della rottamazione renzista tramonta, a cominciare da Palermo. A stretto giro di comunicato, sarà inaugurata la classica notte dei lunghi coltelli, per aprire l’altrettanto consueta alba da resa dei conti.
L’altro, invece, non ha vinto. Gianfranco Miccichè, reuccio forzista, ha portato in cassa un venti per cento che, su base regionale, è qualcosa di più del quattordici e rotti racimolato complessivamente da Forza Italia. Ma la sua immagine e il suo primato ne sono usciti comunque ridimensionati. Il centrodestra che aveva superato di misura l’ordalia elettorale contro M5s, innalzando il presidente Musumeci sullo scranno di Palazzo d’Orleans, nel suo granaio di una volta, ha segnato il passo. Significa che, in mancanza del carisma di Nello, quello che restava non è stato sufficiente. Oltretutto, l’esuberante Gianfranco, dalla sua sede presidenziale di Palazzo dei Normanni, ha inanellato inciampi su inciampi che i malevoli potrebbero definire gaffes.
Non è apparsa – tanto per citare un caso – politicamente lungimirante la difesa dei ‘super-stipendi’ dell’Ars, a prescindere dalla demagogia di alcune proposizioni del dibattito. Certe pose castali hanno verosimilmente infuriato un elettorato alla fame che non ha avuto più dubbi e si è lanciato in massa, matita in resta, sulla scheda, cercando il simbolo di chi prometteva il reddito di cittadinanza.
La polemica del 5 marzo è esplosa a grappoli. Si citano a saltare: i deputati ‘ribelli’ (Caronia, Cannata, Calderone e Gallo); Genovese jr che borbotta: “Il problema c’è ed è innegabile. Ma chi ritiene che esista una connessione sostanziale con l’esito del voto emerso dalle Politiche rischia di prendere un abbaglio, perché la radice di queste frizioni va rintracciata nelle prime settimane di gennaio, quando è emerso in tutta evidenza uno scollamento tra una parte del gruppo e i vertici regionali del partito”; Vincenzo Figuccia che attacca; il senatore D’Alì che affonda i colpi. Dall’altra parte, i sostenitori di Miccichè che respingono e contrattaccano, Giuseppe Milazzo in testa, qualche pontiere che tenta di mediare e la promessa di scomunica per gli infedeli. Leadeship al collasso? No, ma se Faraone sta male, non è che Miccichè stia tanto più bene, perché il vento di rivolta soffia impetuoso.
C’è poi da raccontare, a margine, un altro crollo verticale, quello dell’ex presidente del Senato, Pietro Grasso, che non ha fatto nemmeno in tempo a salire sulla sella di Leu, quale condottiero acclamato e conclamato, ed è stato subito disarcionato dalla durezza della disfatta. Una storia già finita? Chissà. Al momento, è sufficiente un motto antico, sia pure adeguato alle circostanze, per descriverla nella sua icastica brevità: ‘Veni, vidi, persi…’ . Semplice, no?