PALERMO – È una sentenza amarissima. Perché la Cassazione lascia aperte profonde ferite. La prescrizione cancella la condanna a sette anni per usura ed estorsione che Francesco Gatto ex funzionario della dogana di Palermo non sconterà mai.
Resta in piedi il diritto delle vittime ad ottenere il risarcimento danni. A ciascuno di loro – una ventina in tutto – i supremi giudici riconosce una provvisionale di 15 mila euro. E qui sta la beffa. Una doppia beffa. Probabilmente non incasseranno neppure un centesimo di questi soldi. E in ogni caso sarebbero una goccia nel mare di un danno economico molto più pesante. Un danno che sarà quantificato in un processo civile. Solo che nel frattempo del patrimonio accumulato da Gatto sulla pelle delle persone in parte non c’è più traccia e in parte il nuovo proprietario è divenuto lo Stato che ha confiscato decine di immobili all’imputato. Sono le case che Gatto ha strappato alle sue vittime che non riuscivano a pagare le rate dei prestiti. E così si arriva al paradosso: le vittime dovranno fare una nuova causa per ottenere dallo Stato ciò che gli è stato sottratto. Per molti di loro la casa era tutto ciò che possedevano. Il piccolo imprenditore, la professoressa, il dipendente pubblico sono sul lastrico
Dal processo esce sconfitto soprattutto il sistema giustizia. Ci sono voluti diciassette anni per arrivare a una sentenza definitiva. La giustizia si è confermata un mastodonte incapace, in alcune circostanze, di rispondere alle istanze dei cittadini. Gatto evita il carcere perché il tempo per processarlo è scaduto. E di tempo ne è passato parecchio visto che la sentenza di primo grado è del 2004. Allora Gatto era stato condannato a sette anni di carcere. In appello arrivò l’assoluzione, poi annullata dalla Cassazione che bocciò in toto la motivazione. In sostanza, si pretendeva che oltre alla denuncia la vittima di usura desse prova dei pagamenti eseguiti. Come se l’aguzzino rilasciasse delle ricevute per le operazioni illecite. Un concetto spazzato via dalla Cassazione che ora pianta un paletto giuridico dichiarando inammissibile il ricorso di Gatto che chiedeva l’assoluzione nel merito.
Nella casa di Gatto i finanzieri trovarono titoli di credito in bianco e scritture private di compravendita di immobili firmate preventivamente dalle vittime. Al momento di concedere i prestiti con tassi del 144% per cento annui Gatto pretendeva dai suoi debitori garanzie immobiliari che poi sfruttava in caso di insolvenza. Attraverso questi meccanismi divenne proprietario di una trentina di immobili. Tra le vittime c’era anche un’ex assessore comunale di Palermo, Emanuela Alaimo, la prima a denunciare Gatto nel lontano 1999. Lei come gli altri si sono costituiti parte civile assieme all’associazione Sos impresa, assistiti dagli avvocati Emilio Chiarenza, Ettore Barcellona, Fabio Lanfranca, Marco Manno, Fausto Amato e Giuseppe Piazza. Ed è dall’avvocato Amato che arrivano le parole che descrivano un quadro sconfortante: “La magistratura italiana in tema di usura sconta ancora un forte ritardo culturale per non essere riuscito a capire quali fossero gli standard di prova da raggiungere. Oggi finalmente, con una sentenza storica, si cristallizza il fatto che non si può chiedere a una vittima di usura di fornire la prova documentale del reato. Resta un gap difficile da colmare. L’usura è un fenomeno diffuso a tappeto in tutta Italia. Viene gestito dai gruppi criminali che attraverso l’usura si impadroniscono delle attività economiche delle vittime. Ed è per questo che vanno impiegate tutte le migliori risorse e i migliori strumenti sul modello di quanto è stato fatto per la lotta alla mafia”.