PALERMO – Una lunga serie di attività commerciali – imprese e negozi -, conti correnti, macchine e persino cavalli da corsa. I mafiosi di Villabate hanno saputo investire. Hanno capito che per ripulire i soldi bisognava riciclarli in attività apparentemente lecite. Fiori, caffè, scommesse clandestine, lavanderie: tutto va bene. Con un grosso vantaggio.
I rischi di impresa erano pari a zero, visto che i soldi non li hanno tirati fuori di tasca propria, ma sono arrivati dal pizzo. I carabinieri del Reparto operativo di Palermo hanno impiegato tre anni per ricostruire il filo che legava un tesoro da dodici milioni di euro, oggi finito sotto sequestro per decisione della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Le indagini patrimoniali sono collegate all’operazione Senza Frontiere che nel giugno del 2009 portò all’arresto di 12 persone, tra vertici e affiliati alla famiglia mafiosa di Villabate.
Il sequestro colpisce Giovanni D’Agati, reggente del clan dopo l’arresto dei Mandala’. Ed ancora i fratelli Maurizio e Davide Di Peri, figlio di Giuseppe, assassinato il 14 marzo 1995 in un agguato che costo’ la vita anche ad un altro figlio, Salvatore. I Di Peri si occupavano della gestione di due Punti Snai fittiziamente intestate a Fabio Ribera. Sequestrati pure i beni di Giovanni Montaperto, indicato quale uomo del racket agli ordini di D’Agati. Quest’ultimo, già arrestato nel ’94, si sobbarcò il peso del clan retto dai Mandala’ e azzerato nel ’95 con il blitz Grande Mandamento che segnò l’inizio della strategia di accerchiamento dell’allora latitante Bernardo Provenzano. Da quel momento D’Agati dovette occuparsi dell’assistenza economica dei detenuti e dei loro familiari. Avrebbe così iniziato a cercare liquidità, tramite le estorsioni, l’intestazione fittizia di beni e l’apertura di attività formalmente lecite