PALERMO– Dici Zen e pensi al deserto, a un’ingiustizia contro gli innocenti, a un orizzonte diverso che faticosamente avanza. A quale paesaggio dobbiamo credere? Al riscatto di chi sfila in processione per omaggiare i carabinieri, dunque lo Stato? Oppure alla cronaca che ci consegna l’immagine di una irredimibilità: ancora scene di spaccio davanti ai bambini che giocano, ancora minorenni coinvolti, ancora un blitz?
Due sentieri in contraddizione. Uno conduce alla vittoria del bene, come se il male fosse appena una nuvola di passaggio. Uno, invece, ripete il ritornello della rassegnazione. E, in mezzo, una notizia che apre più di uno spiraglio: alcune mamme dello Zen, stanche dei pusher, hanno ringraziato i militari, chiamando in caserma o presentandosi di persona. Uno scenario differente rispetto al passato. Il marchio di quell’orizzonte.
“La criminalità non si combatte soltanto sul piano simbolico – dice Mariangela Di Gangi, anima dell’associazione ‘Zen Insieme’ -. La mafia qui non è più un valore, la gente ha reagito con orgoglio ed è un dato importantissimo. Però, resta la mancanza di opportunità per i ragazzi e per le ragazze. E chi è vittima del cerchio dell’esclusione può diventare preda della manovalanza di un sistema conclamato e perverso che produce reddito. Qui non c’è futuro. Certo, lo Zen è cambiato, ha preso coscienza di essere parte di Palermo, ma le istituzioni sono lente o almeno non altrettanto veloci. Il Comune potrebbe sostenere con più forza i processi che si sono attivati. Il disagio è tremendo e non ci sono nemmeno le parole per raccontarlo. Penso a un giovane papà che ha sbagliato, che ha compiuto un vero cammino di redenzione, ma, adesso, ha difficoltà a vivere onestamente”.
Rosi Pennino, originaria del quartiere, una vita tra volontariato e politica, punta il dito: “Gli unici veramente presenti sul territorio sono i carabinieri che svolgono un lavoro importantissimo. I ragazzi, quando smettono di andare a scuola, sono abbandonati perché non hanno alternative. Lo Zen si trova a due passi da Mondello, da Sferracavallo, da Barcarello e non riusciamo a costruire reti di lavoro e di bellezza comuni. Perché, per esempio, Maurizio Artale, del centro ‘Padre nostro’ a Brancaccio, coinvolge i ragazzi e allo Zen non accade niente del genere? E’ evidente che c’è un problema che riguarda tutte le periferie”.
Eccoli i protagonisti di quell’orizzonte che lotta. Le associazioni. I carabinieri. E la scuola, il fortino che produce italiano, matematica e legalità, assediato dal nonsenso di un contesto che, invece, opprime gli innocenti.
La professoressa Stefania Cocuzza è la preside dell’istituto comprensivo ‘Sciascia’. Non sarebbe corretto definirla ‘di trincea’, perché non si costruiscono trincee nel cuore del vuoto. “Sono qui dal 2 settembre – racconta – e il lavoro è tanto. Operiamo in rete con le associazioni per cercare di offrire il miglior servizio possibile. La nostra comunità è variegata. Ci sono ragazzi complicati…”.
Quale complicazione, professoressa? “Diciamo che assumono talvolta i comportamenti di chi non è abituato al rispetto delle regole. Parliamo di adolescenti che stentano a mantenere l’attenzione per più di due ore, che sono aggressivi, che hanno dei codici per cui magari uno è il dominatore e gli altri sono i gregari. Stiamo riscontrando, per fortuna, una grande disponibilità delle famiglie. E poi c’è la questione della sicurezza, di aule in disuso… Noi andiamo avanti con tutto il nostro entusiasmo”.
E forse la scuola è una metafora importante per capire il resto. L’abnegazione dei professori. La disperata lotta minuto per minuto nel fortino assediato. La speranza che nasce e troppe volte evapora in una classe sgarrupata dove puoi incontrare ragazzi brillanti che non avranno quasi mai l’occasione di diventare il futuro avvocato, l’insegnante di domani, il medico con un passato umile. Sono fiori preziosi i figli dello Zen, piantati tra orizzonte e deserto. Ma chi gli darà l’acqua per crescere liberi?