Andrea che voleva andare al mare| Ucciso per salvare l'onore dei boss - Live Sicilia

Andrea che voleva andare al mare| Ucciso per salvare l’onore dei boss

Aveva quattro anni. Lo crivellarono di colpi per le strade del rione Brancaccio, a Palermo.

PALERMO - LA STORIA
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PALERMO – Cosa volete che ne sapesse della mafia. Andrea Savoca aveva solo quattro anni. Una mattina di luglio di 25 anni fa voleva andare al mare. E doveva andarci con il papà che finalmente era tornato a casa. Lo avevano scarcerato due giorni prima. Il padre accostò con la macchina in via Pecori Giraldi, a Brancaccio. La mamma scese dalla Volkswagen Passat ferma in doppia fila e salì, assieme alla sorella, a casa della nonna per un saluto veloce. Andrea restò in macchina. Il posto accanto al lato guida era libero e Andrea vi sgattaiolò, lasciando l’altro fratellino seduto da solo nel sedile posteriore. Arrivarono due uomini a bordo di una motocicletta di grossa cilindrata. Avevano il volto coperto dai caschi. Fecero fuoco all’impazzata. Giuseppe Savoca morì sul colpo. Andrea si accasciò sulle ginocchia del padre, in una pozza di sangue. Il fratellino seduto dietro urlava. La madre si affacciò al balcone. Quando scese in strada Andrea respirava ancora. Il suo cuore smise di battere poche ore in ospedale.

I giornali dell’epoca pubblicarono le foto di quel corpicino martoriato dal piombo. La mafia ammazzava un innocente e continuava a parlare di onore. Illusi tutti coloro che hanno sperato che quella foto servisse a cambiare le cose. Perché l’onorata società i bambini ha continuato ad ammazzarli.

Era il 26 luglio del 1991. Cosa nostra consumava la sua vendetta, lavando l’onta con il sangue di un innocente, ucciso assieme al padre e pochi giorni dopo lo zio. Per i tre delitti una ventina di boss sono stati condannati all’ergastolo. I fratelli Savoca morirono perché rapinavano i Tir senza l’autorizzazione dei boss. Una doppia colpa la loro: ad ogni furto la zona di Brancaccio si riempiva di sbirri e poi la merce rubata era destinata a commercianti che pagavano il pizzo, dunque protetti da cosa nostra. La commissione provinciale si riunì e decretò la caccia all’uomo. Gli autori dovevano essere individuati ed eliminati. Così avvenne. Lo sappiamo dal racconto di Giovanni Brusca: “Tale riunione si svolse dopo che io mi interessai per risolvere un problema inerente il recupero di un automezzo che era stato sottratto ad Antonino Melodia … uomo d’onore della famiglia di Alcamo… Riina decise di adottare una linea unitaria nel senso che, individuati gli autori dei furti e delle rapine, bisognava, prima cercare di convincerli con le buone a smettere e, quindi, in caso di fallimento di tale tentativo, eliminarli”. Il tentativo di fare rientrare nei ranghi i Savoca tramite un parente mafioso fallì miseramente. I fratelli “non solo negarono, ma continuarono nelle loro illecite attività e di ciò Giuseppe Graviano ebbe prove certe e, dunque, si decise di sopprimerli”.

L’esecuzione della condanna a morte fu affidata agli uomini di Resuttana e San Lorenzo. Prima, il 24 luglio, scomparve Salvatore Savoca, fratello minore di Giuseppe. Anni dopo si sarebbe scoperto che era stato strangolato in un magazzino a Capaci e il corpo fatto sparire. Per sempre. Due giorni dopo dopo toccò a Giuseppe Savoca, appena scarcerato. Doveva essere una giornata di festa. Ed invece arrivò la pioggia di fuoco. A sparare fu Salvino Madonia, ma l’ergastolo fu inflitto a tutti gli altri boss che deliberarono i tre omicidi. Un elenco di individui che hanno seminato morte e dolore. A cominciare da Totò Riina.

Passò del tempo prima che Giovanni Brusca facesse i nomi di mandanti ed esecutori del delitto di Andrea. Disse che era “molto difficile accusare qualcuno dell’omicidio di un bambino forse perché, essendo anch’io coinvolto in una vicenda simile, so che tipo di malessere si prova a dover rispondere di simili delitti”.

Già, lo sapeva bene Giovanni Brusca le cui mani, cinque anni dopo la morte di Andrea, ammazzarono Giuseppe Di Matteo. Fu rapito, tenuto prigioniero in un pozzo, strangolato da Brusca e il corpo distrutto nell’acido. Aveva quindici anni ed era colpevole di essere figlio di un pentito che non voleva tenere la bocca chiusa.

Non serve fare una classifica dell’orrore per dire che cosa nostra ha ucciso il concetto stesso di umanità. La stessa cosa nostra che durante il maxiprocesso affidò a Giovanni Bontate, fratello di Stefano, il compito di leggere un comunicato in cui tentò di allontanare il sospetto di aver ordinato l’uccisione di Claudio Domino, un bambino di soli undici anni. Il 7 ottobre del 1986, nel quartiere San Lorenzo di Palermo, gli spararono un colpo alla testa. Il padre gestiva un’azienda che aveva ricevuto in appalto il servizio di pulizia all’interno dell’aula bunker in cui si svolgeva il dibattimento. La pista mafiosa non fu mai provata. I presunti assassini, componenti di un clan di trafficanti di droga, furono trovati morti qualche tempo dopo l’uccisione di Claudio. Cosa nostra scelse la platealità di un proclama per difendere la sua onorabilità. Andrea e Giuseppe ci ricordano cosa sia davvero cosa nostra.


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