Dal mancato pestaggio all'omicidio| Il pentito e i misteri di Porta Nuova - Live Sicilia

Dal mancato pestaggio all’omicidio| Il pentito e i misteri di Porta Nuova

Giuseppe Di Giacomo e il luogo dell'omicidio

Nuovi retroscena nei verbali di Giovanni Vitale, che parla anche del delitto Di Giacomo (in foto)

PALERMO – Era tutto pronto. Domenico Palazzotto, di recente condannato a vent’anni con l’accusa di avere guidato il clan dell’Arenella, doveva “prendere bastonate”. A raccontarlo è il collaboratore di giustizia Giovanni Vitale che si attribuisce il merito di avere evitato il peggio.

Giuseppe Di Giacomo, capomafia di Palermo Centro, crivellato di colpi nel 2014 per le strade della Zisa, si incontrava spesso con Giuseppe Fricano, reggente del clan di Resuttana “perché doveva prendere bastonate Domenico Palazzoto e siccome era del Capo si interessò lui”. Palazzotto fu risparmiato: “… gli avevo detto di no perché prima doveva sentire Palazzotto… non mi sembrava giusto dargli legnate.. prima lo sentivamo… il motivo… lui (Fricano, ndr) credeva subito a qualsiasi cosa gli raccontavano”. La gestione di Fricano finì per creare malumori, tanto che fu costretto a farsi da parte.

Nelle dichiarazioni di Vitale c’è spazio anche per un retroscena che riguarda l’omicidio di Di Giacomo. Ne parla quando riconosce la fotografia di Tony Lipari: “Nel 2012 io e Fricano con lui abbiamo avuto un appuntamento in via Cipressi all’interno di un negozio di fabbro a cui era presente Giovanni Tarallo. L’incontro era dovuto alla realizzazione di un’estorsione ai danni del titolare di una polleria che si trovava di fronte l’officina di Fricano (Fricano fino all’arresto era un insospettabile meccanico, ndr). Lipari ci ha cercato perché conosceva il titolare e infatti ci ha fatto avere 500 euro. Fricano ipotizzava che Lipari fosse coinvolto nell’omicidio di Giuseppe Di Giacomo perché vi erano dei dissidi fra i due io… so che Di Giacomo era un capo famiglia ed era ben voluto”.

Giovanni Di Giacomo, killer ergastolano e fratello della vittima, era convinto che fossero stati Emanuele e Onofrio Lipari, detto Tony, a uccidere Giuseppe. Qualche tempo fa Tony Lipari sentì la necessità di prendere la parola in aula per spiegare che non aveva “motivi di astio contro nessuno e nessuno ne . H9h19hc1j  ha contro di me”. Era il suo modo per sgombrare il campo da dubbi e sospetti.

Dopo l’arresto di Alessandro D’Ambrogio, considerato il leader del mandamento di Porta Nuova, Giuseppe Di Giacomo aveva scalato le posizioni di potere, forte della parentela con il fratello. Nei mesi della sua ascesa, frenata con il piombo, erano sorti malumori. Ai Di Giacomo non era piaciuto l’atteggiamento dei Lipari – ritenuto “troppo distante -, e il loro obiettivo di mettere le mani sugli incassi delle sale scommesse della vittima. E così scattò la reazione. Giovanni Di Giacomo ordinò al fratello di riferire a Tommaso Lo Presti, che nel frattempo era tornato a comandare, di uccidere i Lipari: “… si preparano… fanno l’appuntamento e mentre c’è il discorso fanno bum bum e s’ammogghia tutto”. Secondo un altro pentito, Vito Galatolo, Lo Presti potrebbe avere fatto il più classico dei voltafaccia. Il racconto di Galatolo, però, non è mai stato riscontrato. Il delitto Di Giacomo è ancora irrisolto.


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