CATANIA – “Il matrimonio che fu celebrato tra gli Squillaci, gli Strano e Lo Giudice è un matrimonio che non si potrà mai mai rompere”. Suona come una sentenza senza appello la frase pronunciata da Salvuccio Bonaccorsi, giovane boss dei Carateddi, frangia armata dei Cappello di Catania, nel corso dell’udienza del processo d’appello scaturito dal quinto capitolo dell’inchiesta Revenge. Il “matrimonio di mafia” a cui si riferisce il nuovo collaboratore di giustizia è quello sancito alla fine degli anni 2000 tra Iano Lo Giudice (nipote dei Bonaccorsi, ndr), capo del gruppo dei Carateddi, gli Squillaci, clan dei Martiddina di Piano Tavola affiliato a Cosa nostra, e i fratelli Strano di Monte Po, anche loro appartenenti alla famiglia catanese dei Santapaola. Una transumanza mafiosa che ha sullo sfondo una guerra di sangue che porta nel 2009 all’omicidio dell’uomo d’onore Raimondo Maugeri, responsabile del Villaggio Sant’Agata, storica roccaforte degli Ercolano.
Ma se i processi parlano di un passaggio dei “Martiddina” e degli Strano tra le file dei Cappello, dietro invece potrebbe esserci una nuova chiave di lettura. E cioè della creazione di una nuova famiglia di Cosa nostra catanese riconosciuta da Palermo. Dai faldoni del processo per la strage di Catenanuova arriva un verbale del pentito Gaetano D’Aquino, boss di vertice dei Cappello-Bonaccorsi, che racconta di una serie di “battesimi di mafia”. Una nuova sfilza di uomini d’onore che avrebbero avuto il compito di soppiantare Nitto Santapaola alle falde dell’Etna. Poi però il piano “benedetto” dai Graviano di Palermo e da Ciccio La Rocca, capomafia di Caltagirone, sarebbe sfumato per gli arresti della Squadra Mobile di Catania (Blitz Revenge del 2009, ndr). “Si stava organizzando di comporre a Catania una nuova famiglia, con il benestare sia di Francesco La Rocca e dei fratelli Graviano. Questa nuova famiglia doveva nascere già a gennaio del 2010. Io fui fatto uomo d’onore – rivela il pentito D’Aquino – a gennaio del 2010. Lo Giudice fu fatto uomo d’onore fuori”.
Un verbale quello del killer catanese che porta a guardare un passaggio cruciale della storia della mafia catanese da una inedita prospettiva. D’Aquino spiega ai pm di Caltanissetta che Sebastiano Lo Giudice in una cella di Bologna stringe rapporti con uno dei “figli di Salvatore Lo Piccolo”. Ianu U Carateddu nel 2006 esce dal carcere e le inchieste raccontano che prima di tornare a Catania ha fatto una capatina a Palermo. Poi c’è l’ascesa criminale di Sebastiano Lo Giudice: rapine, soldi, droga, armi e sangue.
D’Aquino racconta che a convincere Pippo “Martiddina” è Mario Strano, il boss arrestato a Ferragosto a Termini Imerese per aver violato la sorveglianza speciale. A Palermo dieci anni fa ci sarebbero state delle divergenze con i Santapaola. “Palermo non vuole più Benedetto Santapaola, perché sta facendo troppi uomini d’onore e si stanno pentendo tutti e a Palermo non sta più bene”, avrebbe detto il boss di Piano Tavola (Giuseppe Squillaci) a D’Aquino. Una situazione di cui avrebbe approfittato Mario Strano “per passare definitivamente non a diventare loro cappellioti, perché – precisa il pentito – Giuseppe Squillaci l’ha sempre detto: “Noi altri non siamo Cappello, io sugnu ‘martiddina’”. Una presa di posizione senza tentennamenti.Che fortifica la nuova chiave di lettura.
Le voci corrono. Anche in carcere. Pare che la notizia che a Catania sarebbe dovuta nascere una nuova famiglia mafiosa sarebbe arrivata a Franco Amantea, santapaoliano di rango di Paternò, e il cognato Turi Assinnata. I due – racconta D’Aquino – avevano “chiesto a Mario Strano cos’era la diceria di questa… che si diceva che a Catania doveva essere formata una nuova famiglia. Mario disse: “Guarda, non è una diceria né che possiamo mettere in giro noi e né che possiamo confermare. Tu sai per la Sicilia orientale chi è che può dare l’autorizzazione o lo sta bene per formare la nuova famiglia – dice – Ciccio La Rocca. Quindi, il giorno che voi volete sapere se a Catania c’è una nuova famiglia, ditelo a lui e lui ti dice o si o no”. E inoltre per sancire questa alleanza tra palermitani e Carateddi, i fratelli Graviano avrebbero mandato in carcere a Ignazio Bonaccorsi, capo bastone del gruppo criminale, un regalo. “Una maglietta del Milan”, rivela ancora D’Aquino.
Prima dell’omicidio di Raimondo Maugeri (nel 2008) i Cappello e i Santapaola avrebbero dialogato. Santo La Causa, reggente fino al 2009 di Cosa nostra catanese, e Gaetano D’Aquino avrebbero parlato di un contratto mafioso. “Santo La Causa mi disse – racconta il pentito – “Gaetano questa cosa facciamola assieme, come se fosse un matrimonio”. D’Aquino arriva a mettere sul piatto le condizioni: “La famiglia Cappello non deve essere più riconosciuta come l’ultima. Se a Catania c’è una torta che si divide per quattro, da oggi in poi ‘sta torta si divide per cinque. Tutte le cose vecchie che sono vostre a noi non ci interessa, ma tutto quello che viene fatto di nuovo a noi interessa”. Poi “muore Raimondo Maugeri”. Il boss del Villaggio Sant’Agata viene ammazzato a ‘casa sua’. Nella sua roccaforte. Di giorno. È quasi impossibile pensare che nessuno si sia accorto che i confini erano stati valicati da due in scooter liberi di scorrazzare armati tra le strade di zia Lisa. E se in quel dialogo serrato con uno dei vertici dei Cappello Santo La Causa non si sarebbe opposto all’eliminazione dei suoi oppositori? Non dimentichiamo la storica contrapposizione interna tra i Santapaola e gli Ercolano. Il Villaggio è terra storica degli Ercolano. Comunque, dopo, qualcosa si rompe. La follia omicida di Iano Lo Giudice prende il sopravvento su qualsiasi equilibrio. “Gli equilibri si rompono”, dice D’Aquino. Anzi. “Loro volevano uccidere Sebastiano Lo Giudice”. Santo La Causa organizza, infatti, un vertice mafioso per rispondere alla dichiarazione di guerra dei Carateddi. Ma alla villetta di Belpasso arrivano i carabinieri.