PALERMO – I fratelli Cavallotti fanno ricorso in appello contro la confisca dei beni. La decisione del Tribunale per le Misure di prevenzione, con la quale nei mesi scorsi era stato detto no alla revocazione del provvedimento, era stata contestuale a quella con cui sono state dissequestrate le aziende dei figli e dei nipoti di Vincenzo, Salvatore Vito e Gaetano Cavallotti.
I Cavallotti in passato sono stati assolti dall’accusa di associazione mafiosa, ma sottoposti a misure patrimoniali e personali perché ritenuti “socialmente pericolosi”. Tra le imprese confiscate ci sono la Comest e la Imet, citate nella corrispondenza di Bernardo Provenzano per il pagamento del pizzo sui lavori di metanizzazione nei comuni di Agira e Centuripe. In un altro pizzino era Giovanni Brusca a scrivere a Provenzano per affrontare il tema della messa a posto dell’impresa dei Cavallotti che stava realizzando la metanizzazione a Monreale. Finite sotto sequestro la Imet e la Comest, i fratelli, secondo l’accusa, avrebbero dirottato i loro interessi sulle aziende intestate fittiziamente ai figli. Sono le aziende restituite dopo otto anni. Per figli e nipoti le prove non hanno retto.
I fratelli Cavallotti avevano puntato nel precedente giudizio su alcune prove che ritenevano nuove. Ora il legale degli imprenditori di Belmonte Mezzagno, l’avvocato Rocco Chinnici, le ha inserite nei motivi di appello, censurando il ragionamento del Tribunale secondo cui, in realtà, si sarebbe trattato di prove già valutate oppure successive al giudizio.
“Secondo le Sezioni Unite, per prova nuova deve intendersi non solo la prova sopravvenuta ma anche la prova esistente al tempo del giudizio, ma non acquisita – si legge nel ricorso – infine, la prova acquisita ma non valutata dall’organo giudicante”.
Ecco i punti della difesa
L’appalto di Centuripe e Agira non rientrava fra quelli controllati dalla mafia attraverso il cosiddetto “patto del tavolino”. Guido Catalano, allora presidente della Commissione di gara, disse di non avere ricevuto alcuna pressione. Secondo il Tribunale, però, non si poteva escludere che la gara fosse stata truccata senza il coinvolgimento di Catalano. “Stando all’impostazione del Tribunale, per confutare l’assunto della turbativa – contesta l’avvocato Chinnici – la difesa avrebbe dovuto, quindi, esporre i diversi sistemi (quali?) attraverso i quali sarebbe possibile, in linea teorica, truccare un pubblico incanto per dimostrare poi, con elementi di segno contrario, che nel caso di specie nessuno di essi era stato attuato. In questo modo, la difesa viene gravata da un onere probatorio che non è previsto da alcuna fonte normativa o giurisprudenziale, perché si finirebbe per affermare che la difesa debba fornire una vera e propria probatio diabolica”.
Giovanni Brusca nel 2000 raccontò che i Cavallotti potevano seguire una strada autonoma per ottenere i lavori a Monreale. Dunque non vi sarebbe stato alcun intervento di Bernardo Provenzano. Nel precedente giudizio il Tribunale aveva sostenuto che “le messa a posto precede l’aggiudicazione dell’appalto”. “Tale argomentazione non è corretta, infatti dalle dichiarazioni vagliate dai giudici di merito non si intuiva che i Cavallotti – così sostiene l’avvocato Chinnici – avevano ottenuto la commessa in questione ‘senza bisogno dell’intervento di Cosa Nostra’ in quanto è proprio questa espressione che costituisce il novum dell’apporto offerto dalla diversa dichiarazione. Dalle precedenti dichiarazioni si evinceva soltanto che i Cavallotti avrebbero dovuto pagare il pizzo, alla stregua di tutti gli altri imprenditori operanti nel territorio”.
Sempre Brusca nel 1998 spiegò che quando Provenzano, nei pizzini girati a Luigi Ilardo e consegnati al colonnello Michele Riccio, parlava di “raccomandare” i Cavallotti intendeva dire che bisognava evitare che subissero danno una volta pagato il pizzo. Dunque non c’era alcun riferimento all’aggiudicazione della gara. Ancora una volta, secondo il collegio, si trattava di elementi già valutati. Sul punto nel ricorso si legge che “si deve sottolineare che tutte le prove nuove raccolte, unitamente a quelle già dedotte ma non valutate neppure implicitamente, depongono in senso nettamente contrario alla supposta anteriorità. Anzitutto, i pizzini sono privi di data. Pertanto, se è vero, come sostenuto dallo stesso Tribunale, che per ‘messa a posto’ deve intendersi esclusivamente il pagamento del pizzo, la missiva, se priva della anteriorità, avrebbe avuto un valore indiziante nullo. In verità, l’anteriorità era stata dedotta non dal pizzino (in sé utilizzabile) ma dalla relazione del tenente colonnello Riccio. Tale relazione è stata considerata inutilizzabile nel procedimento di cognizione che si è concluso con la sentenza che ha assolto i fratelli Cavallotti dai reati loro ascritti”.
I dipendenti delle aziende hanno negato di avere ricevuto soldi in in nero, smentendo i periti. È vero, aveva sottolineato il collegio, ma nessuno aveva fornito “una spiegazione alternativa a smentire” la consulenza. A ciò si aggiungeva che la misura patrimoniale “è stata disposta sulla base del duplice requisito della sproporzione tra risorse lecite e valore dei beni sequestrati e della provenienza degli stessi da attività illecita, in quanto acquistati grazie agli utili dell’impresa mafiosa esercitata a partire dalla seconda metà degli anni ’80”. “L’ipotesi peritale non poggiava su elementi certi e oggettivamente verificabili ma muoveva da un raffronto tra l’incidenza del costo della manodopera durante l’amministrazione Cavallotti – ecco uno dei motivi del ricorso in appello – con l’incidenza del costo della manodopera durante la gestione del dottore Modica de Mohac Andrea, amministratore giudiziario del gruppo Cavallotti. Siccome la produzione aziendale durante l’amministrazione giudiziaria era minore, di conseguenza l’incidenza del costo della manodopera era più alta. Il Tribunale non ha fornito alcuna risposta alle argomentazioni della difesa non le quali erano state dimostrate le ragioni della minore redditività delle aziende in amministrazione giudiziaria”.
Sul giudizio di pericolosità sociale dei Cavallotti il legale sostiene che “i giudici di merito hanno ricondotto l’appartenenza dei Cavallotti ad un incomprensibile concetto di contiguità incorrendo nell’eccessivo allargamento dell’area della pericolosità verso una sfuggente situazioni di mera collateralità, in violazione dei canoni di tipicità della fattispecie, presidiati da norme di rango costituzionale e convenzionale”. In ogni caso non verrebbe spiegato quale sia stato l’eventuale contributo fattivo dei Cavallotti all’organizzazione mafiosa e in cosa consista l’attualità della pericolosità sociale degli imprenditori. La prova va perimetrata, non può estendersi all’infinito.
“I miei familiari non hanno avuto un giusto processo. Ma, nonostante tutto – spiega Pietro Cavallotti – continuano ad avere fiducia nella giustizia. Chiediamo soltanto obiettività di giudizio e di fare presto perché, dall’inizio della vicenda che ha stravolto le nostre vite, sono già passati 21 anni”. Leggi la nota integrale con le dichiarazioni.