Tre sindaci sotto inchiesta: se la mafia conta più del tricolore

Tre sindaci sotto inchiesta: se la mafia conta più del tricolore

Cosa emerge dai casi di Paceco, Castellammare del Golfo e Calatafimi

PALERMO – Tre sindaci e tre capimafia. Da luglio a oggi sono finiti sotto inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Palermo i sindaci di Castellammare del Golfo, Paceco e per ultimo di Calatafimi. Per ogni primo cittadino sono emersi legami con un capomafia.

Gli indagati avranno tempo e modo per provare a dimostrare la propria non colpevolezza. Le indagini, al di là degli esiti giudiziari, offrono sin d’ora un spaccato preoccupante di incapacità (nella meno grave delle ipotesi dal punto di vista penale), o (nella peggiore) di commistione fra chi amministra la cosa pubblica e i mafiosi.

Questi ultimi non sono presunti, ma conclamati perché in tutti e tre casi si tratta di gente già condannata per associazione mafiosa. I loro trascorsi personali non potevano certo sfuggire ai sindaci.

Il sindaco di Paceco

Il sindaco di Paceco, Giuseppe Scarcella, avrebbe mostrato grande rispetto verso Mariano Asaro, mafioso di vecchia data, scarcerato nel 2018 e di nuovo arrestato la scorsa estate. Lo chiamava “don Mariano”. Pochi mesi dopo essere tornato in libertà i carabinieri del Nucleo investigativo di Trapani hanno monitorato gli incontri fra Asaro e il sindaco. Incontri anticipati dalle parole di Asaro: “… non c’è problema al Comune. Non c’è problema al Comune…”.

Gli incontri sono avvenuti nel palazzo di città. Si discusse del rilascio di un certificato di agibilità e abitabilità per un immobile del suocero di Asaro, e dell’apertura di un laboratorio dentistico (Asaro è odontotecnico). Scarcella è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Il sindaco di Castellammare del Golfo

Anche Nicola Rizzo, sindaco di Castellammare del Golfo, era indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’avviso di conclusione delle indagini, però, l’ipotesi è cambiata in favoreggiamento nei confronti del boss Francesco Domingo. Lo avrebbe aiutato nell’assegnazione di un immobile per la sede di una comunità alloggio di cui Domingo sarebbe stato socio. Anche in questo caso in ballo c’è un incontro. Rizzo ha risposto alle domande dei pm, negando la circostanza. La militanza di Domingo in Cosa Nostra è storia vecchia, visto che ha scontato una condanna a 19 anni ed era tornato libero nel 2015.

Il sindaco di Calatafimi

Infine c’è il sindaco di Calatafimi, Antonino Accardo, che ad altri due personaggi noti alle cronache giudiziarie, Nicolò Pidone e Tommaso Rosario Leo, arrestati nel 2012, processati e condannati per mafia, si sarebbe rivolto per chiedere sostegno elettorale, pagato 50 euro a voto, e un aiuto per recuperare una somma di denaro da un ex socio del sindaco. Accardo si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Chi amministra la cosa pubblica e rappresenta una comunità avrebbe dimostrato permeabilità, se non addirittura complicità, di fronte ai desiderata dei mafiosi. In alcuni casi, come per Accardo, sarebbe stato il sindaco a scomodare il boss per chiedere un favore. La nota dolente è che non si tratterebbe di un caso isolato.

Le inchieste della magistratura, specie nelle piccole comunità di provincia, fanno emergere l’abitudine malsana di rivolgersi al mafioso piuttosto che allo Stato per risolvere piccole e grandi questioni. Perché è più comodo, veloce e si ha la certezza di ottenere un risultato. Nella lotta a Cosa Nostra i risultati investigativi sono evidenti e costanti, ma è la battaglia culturale e sociale che si rischia di perdere.

Vigili del fuoco, agenti della polizia penitenziaria, imprenditori, agricoltori: in tanti facevano la fila per incontrare il boss nella sua masseria. Dal furto di cavalli ai confini dei terreni: Pidone metteva le cose a posto. Sono tanti gli esempi che vengono fuori dall’inchiesta sfociata ieri nel fermo di 13 persone. Il “così fan tutti” non è una giustificazione, al contrario un’aggravante. E se si indossa una fascia tricolore l’indignazione dovrebbe essere più profonda. Perché un sindaco non solo deve essere, ma anche apparire al di sopra di ogni sospetto di connivenza con il compaesano mafioso.


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