Una vita da remoto: lavorare al tempo dello smart working - Live Sicilia

Una vita da remoto: lavorare al tempo dello smart working

La crisi sanitaria ha generato una svolta senza precedenti nei modelli organizzativi lavoristici.
ROSEMARIA'S VERSION
di
8 min di lettura

Connessi sempre e per sempre. Il lockdown ha esponenzialmente incrementato le attività online e oggi 43 milioni di italiani usano internet. Il 54° Rapporto Censis sulla situazione sociale in Italia, pubblicato alla fine del 2020, descrive i più significativi fenomeni del Paese nella fase di eccezionale incertezza che stiamo vivendo: tra questi, l’ascesa senza battute di arresto dell’uso della rete è il più evidente.

L’immagine virtuale

Nel corso della rocambolesca giravolta impressa alla storia dal Covid 19, i parametri che ci connotano come popolo si sono ridefiniti. Il primo fattore di identificazione rimane la famiglia (lo è per il 76,3% dei cittadini e per l’83,5% degli anziani); seguono l’essere italiano (39,9%), l’essere legati al territorio di origine (37,3%), la confessione religiosa (17,2%), le idee politiche (11,8%), e, fanalino di coda, l’appartenenza all’Europa (10,9%). Altro dato, nuovo e significativo, è la valenza dell’immagine virtuale: quattro italiani su cento ritengono che la propria identità sia quella rimandata dal profilo Facebook, Instagram e altri social, e tra i giovani la percentuale sale al 9,1%. Dal report emerge altresì che il 29,2% della popolazione si identifica col lavoro che svolge e usa i social network (considerati indispensabili dal 4,9% degli italiani, utili dal 48,6%, inutili dal 22,9%, dannosi dal 23,7%) perché li ritiene importanti per l’attività lavorativa. Si lavora, difatti, sempre di più da casa; e per lavorare in smart working i collegamenti sono cresciuti fino al 100%, e l’aumento dell’uso di software, app e piattaforme è stratosferico.

Una vita da remoto

È come se la pandemia, eliminando i tratti pericolosi della rete, abbia determinato un nuovo entusiasmo verso i vantaggi di una società connessa come riscatto alla clausura. I pericoli latenti ne sono risultati oscurati. Da anni analizziamo gli effetti collaterali dell’uso di internet, come la dipendenza, la manipolazione dei dati, la violazione della privacy, i cyber crimes; la paura di essere dominati dal sistema, incapaci di governarlo, ci aveva indotti a non amplificarne gli aspetti positivi. Ed ecco che il Covid infligge una bella mazzata a tutte le convinzioni demonizzanti della iperconnessione. Azzerati gli spazi dedicati a un’autentica vita sociale, abbiamo dovuto dare a Cesare quel che è di Cesare e rivalutare l’enorme opportunità che la rete ci offre e non solo per divagare dalla solitudine postando gattini e tramonti. Su un tema fondamentale, quello del lavoro, in questo ultimo anno si è consumato un vero e proprio giro di boa. Termini quali smart working, o telelavoro, fino a un pugno di mesi fa noti solo a pochi programmatori, sono di uso comune. Milioni di italiani lavorano da casa, mentre prima dell’emergenza erano circa cinquecentomila.

L’era dello smart working

La crisi sanitaria ha generato una svolta senza precedenti nei modelli organizzativi lavoristici: da marzo 2020 si è registrato il passaggio dal 3% al 34% di lavoratori in modalità “remote working” operanti in Italia. Un trend che durante quest’anno crescerà fino a diventare strutturale. L’Osservatorio “The World after Lockdown” curato da Nomisma e CRIF, che analizza in maniera continuativa l’impatto della pandemia sulle vite dei cittadini, riferisce che gran parte dei sette milioni di lavoratori di cui si tratta appartiene al settore privato, mentre circa due milioni lavorano nella Pubblica Amministrazione. Con la progressiva riapertura delle attività produttive, la quota di lavoratori da remoto si è andata attestando al 24% con un milione di smart workers nel pubblico e 4 milioni nel settore privato. La quota cresce tra i Millennials (passando dal 24% al 27%), al Nord (27% contro il 18% del Centro e il 22% del Sud) e tra le lavoratrici (27% contro il 22% degli uomini). La propensione allo smart working è più forte nelle aziende grandi (31% nelle aziende con oltre 250 dipendenti, a fronte del 14% di quelle con meno di 50 unità di personale), nelle multinazionali (ove si arriva al 53%) e in ambito pubblico (44%), mentre in quello privato si annovera un maggior numero di smart workers nei settori dell’Informatica e delle Telecomunicazioni, con una quota pari al 56% degli occupati.

Vantaggi e svantaggi

Vantaggi e svantaggi: tra i primi, più tempo per le attività domestiche, risparmio di denaro e salute, autonomia e flessibilità nell’organizzazione del lavoro; tra i secondi, legati a situazioni di svantaggio, maggior carico di lavoro, incapacità di separare vita privata e lavorativa, isolamento. In una parola, stress, sul quale è fiorita una copiosa letteratura, da quella divulgativa, che pubblica in rete trucchi in pillole per gestirlo, a quella scientifica, che valuta approccio e dipendenza da tutto ciò che serve per lavorare da remoto, dal software all’organizzazione del lavoro: strumenti (smartphone, tablet e computer), app (per call, chat, videochiamate, webinar), e project management, per sfruttare abilità (ormai si dice skill!) e creatività. Lavorare da remoto non è più una misura di modernità, ma una necessità, se non addirittura un obbligo, agevolato dai protocolli di sicurezza, concordato da governo, aziende e sindacati, regolato da normative, comprese quelle relative alla privacy, sottese ma non per questo meno importanti.

Un esperimento sociale

Il lavoro da remoto è un rivoluzionario esperimento sociale che fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile; tuttavia il punto cruciale, non sempre evidenziato, è che non sia scaturito da un disegno razionale, da una riorganizzazione o da un riesame dei ruoli interni a conflitti pervasi da ombre e ricatti. Piuttosto, è stato forzosamente determinato dal fenomeno complesso che la pandemia costituisce, segnato da fattori biologici, culturali e sociologici ancor prima che economici e politici: fenomeno che ha sconvolto il nostro tempo, non ha ancora cessato di percorrere il mondo, né di produrre i suoi effetti, tra i quali questo macroscopico mutamento del mondo del lavoro.

Lavorare da remoto: una sfida

La riflessione sul lavoro da remoto, ancorché generare critiche e demonizzazioni di intere categorie che, più che attrici del cambiamento, ne sono semplicemente state travolte, dovrebbe costituire una sfida, un laboratorio di idee per ragionare sul prima, sul durante e sul dopo pandemia al fine di ottimizzare le risorse. E se questo dovesse tradursi in un maggiore benessere nello svolgimento della attività lavorativa, che ben venga. O l’odio sociale deve necessariamente offuscare ogni ragionamento? Penso alla stigmatizzazione, francamente ingiusta, di classi come quella insegnante, quasi che la didattica a distanza non sia lavoro.

La crisi mondiale della salute ha scoperto il Re nudo; è emersa una totale mancanza di controllo, sugli accadimenti esterni e su noi stessi. Imperniata l’esistenza sul binomio lavoro/divertimento, mutate le forme di lavoro, chiusi gli spazi di divertimento, siamo rimasti come color che son sospesi, estraniati ma con le mille punture delle nostre fragilità. La ricerca di salvezza è presto diventata cinico egoismo, proprio quando la soluzione risiedeva nella solidarietà.

Costruire il futuro

L’immobilità, per definizione, non conduce da nessuna parte, mentre c’è un estremo bisogno di costruire il futuro. La qualità della vita lavorativa è uno dei pilastri essenziali di questo progetto, che impone di riconsiderare i mutati aspetti della relazione fra lavoro e vita nella eterogeneità che sta caratterizzando il mondo del lavoro, e la società nel suo complesso. La qualità del lavoro nasce dalla tensione tra i bisogni del lavoratore e l’organizzazione del lavoro: se le recenti trasformazioni documentano una crescente sovrapposizione del lavoro con la vita, con la richiesta al lavoratore di una maggiore disponibilità, fisica e mentale, al cambiamento, occorre ricordare che il cambiamento implica il passaggio concettuale dall’avere come obiettivo una generica qualità del lavoro, di per sé legata ai fattori ad esso intrinseci, al perseguire la finalità di una migliore qualità della vita lavorativa, che rimetta in discussione le caratteristiche fondamentali su cui si fonda la cultura del lavoro.

Per ragionare, e ricostruire, va condotta, partendo da lontano, una rilettura della storia dell’umanità. Sembra un progetto vago e ambizioso, ma non lo è. Tutt’altro. Il cambiamento operato dalla pandemia è un cambiamento epocale: se si è compreso questo, si comprende come usare la chiave di lettura costituita dal processo coevolutivo tra uomini e microbi (virus e batteri), caratterizzato, nei millenni, sia dalla reciproca convivenza che da periodici conflitti. La pandemia odierna è, da una parte, in continuità con la guerra infinita tra uomini e microbi; per un altro verso, segna invece un profondo iato, in quanto per la prima volta nella storia dell’uomo si manifesta in un pianeta ipertecnologico, con effetti imprevedibili quanto complessi, che si aggrovigliano in districabili, lontani dall’essere lineari.

Muoversi tra passato e presente non è facile. Le nostre vite sono trasformate all’improvviso da un male che sembra incontrollabile, dall’alto tasso di mortalità, da nuove forme di disuguaglianza, e, infine, dalla crisi dei sistemi produttivi, solitamente strutturati attorno alla netta separazione tra luoghi di vita e luoghi di lavoro. Né la logica emergenziale ha seguito adeguati percorsi sperimentali, programmatici o formativi che mettessero il lavoratore nelle condizioni di adattarsi in maniera meno traumatica al nuovo modello organizzativo.

Il problema del lavoro

Nel corso della vita da remoto, ci siamo resi conto che vi erano processi che non si potevano fermare, quali che fossro il singolo stato d’animo, la personale predisposizione al cambiamento e, da ultime ma non ultime, le nostre ataviche paure. Unica ancora di salvezza, il far parte di “qualcosa”, il tendere al “bene comune”. Non sempre, però, i cambiamenti forzati sono stati un successo.

È legittimo immaginare un Paese con nuovi assetti, ma non senza aver affrontato il problema del lavoro nel suo insieme. I mutamenti epocali, come abbiamo tristemente sperimentato per quello che riguarda la sanità pubblica (ma questa è un’altra, dolorosa storia), senza tutele rischiano di trasformarsi in epocali catastrofi.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI