Il pendolo dell’antimafia oscilla sensibilmente ad ogni sentenza o provvedimento della magistratura che riguardi un colletto bianco. Quando vincono i giudici, cioè se i tre gradi di giudizio condannano, o anche se c’è un rinvio a giudizio, si torna a parlare del rapporto mafia politica. Se la condanna è definitiva, ci si cosparge il capo di cenere e si plaude, eventualmente, alla correttezza del condannato nell’accettare il verdetto. Facendo diventare eccezionale una cosa del tutto normale. Quando i giudici perdono, cioè nel momento in cui ci scappa l’assoluzione o una qualche archiviazione, pare che il rapporto cosa nostra e mondo politico istituzionale sia rimesso in discussione. Non importa se si è in primo o secondo grado o se dai documenti, pure dopo un’archiviazione, risultano comportamenti altamente censurabili. Si procede dritti verso la santificazione del soggetto interessato. Se poi il bollo è della Cassazione, non ne parliamo, è come quando allo stadio segna la squadra del cuore, il boato è incontenibile. Se il tribunale, di primo o secondo grado, formula una condanna, i garantisti a corrente alternata ricordano, invece, che bisogna aspettare il compimento del percorso giudiziario e che non si è colpevoli prima che la sentenza passi in giudicato. Normalmente, non si ha neanche la pazienza di leggere le motivazioni delle sentenze.
Sulla questione, ci sono due punti che vanno dipanati. C’è, innanzitutto, quella che chiamiamo responsabilità politica. Non tutti i rapporti che gli eletti dal popolo hanno con esponenti del mondo criminale possono essere sanzionati dall’autorità giudiziaria. Ma non tutto ciò che è giuridicamente non appurato in via definitiva, o provvisoria, è politicamente accettabile. Questo elementare concetto, che ci portiamo a spasso da alcuni decenni, i partiti non vogliono intenderlo. Rimangono aggrappati ai pronunciamenti dei tribunali. Tutto è ridotto a quest’ambito, dando alla magistratura un ruolo che non ha e non può avere. I codici etici di autoregolamentazione non servono a molto, come dimostrato dai dati sulle ultime amministrative recentemente diffusi dalla commissione antimafia.
Il secondo punto riguarda gli strumenti che i tribunali hanno per procedere. Si possono contestare singoli reati, ma è una strada molto tortuosa. A meno che non si proceda per via legislativa a qualche opportuna modifica. Che senso ha, ad esempio, la distinzione tra l’aver favorito un singolo mafioso o l’intera organizzazione? L’aggravante, prevista nel secondo caso, dovrebbe scattare già nel primo. Se proteggo un mafioso, mi pare abbastanza evidente che voglio difendere l’intero sodalizio. Tutto sarebbe più semplice se il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ancora oggi, dopo 150 anni che si straparla di mafia, non normato in maniera esplicita, fosse disciplinato in modo specifico dal parlamento. È ormai chiesto da più parti. Ciò fornirebbe a tutta, magistratura, politica e opinione pubblica, uno strumento certo cui riferirsi. Basti pensare a cosa abbia significato, nel 1982, l’introduzione del 416/bis, che punisce la mafia in quanto tale, a prescindere dai reati individuali commessi.
C’è materiale su cui dibattere. Al momento non è sufficiente che il concorrente esterno aumenti la possibilità di realizzazione del reato mafioso. Ci vuole almeno un fatto concreto. Mentre si dovrebbe riflettere sul fatto che una disponibilità palese, se accertata, dovrebbe già bastare a configurare l’appoggio esterno. Non può essere che per venire qualificati come mafiosi basta soltanto l’appartenenza alla ditta, e per essere bollati come amici dei mafiosi occorra molto di più che una consapevole vicinanza. Su questo, e altri aspetti, il parlamento dovrebbe confrontarsi. Sarebbe una chiara assunzione di responsabilità della politica, che farebbe luce su un nodo fondamentale nel contrasto alle mafie. Altrimenti, non ci resterà che commentare sentenze, o atti processuali d’indirizzo diverso, assistere a improbabili santificazioni o a parossistiche, quanto inutili, flagellazioni pubbliche.