Il dolce canto della Santuzza nella guerra di Palermo - Live Sicilia

Il dolce canto della Santuzza nella guerra di Palermo

Le parole dell'arcivescovo Lorefice e la processione della speranza.
IL FESTINO 2022
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Il canto della Santuzza giunge in una dolce sera d’estate, in un quindici luglio già sfumato sui babbaluci, sull’allegra e pigiata devozione intorno al Carro – con poche mascherine -, su quel clima popolare che si esprime in una festa dei corpi e dei sentimenti. Ed è consuetudine che il corteo, nel suo clamore, risponda a esigenze individuali e civiche di prima necessità. La voglia di esserci, di ritrovarsi, di consegnare angustie e patemi al folclore, aspettando i fuochi d’artificio per essere sollevati dalla paura della peste.

E c’è tutto un simbolismo – nel percorso dall’oscurità alla luce – che arriva e commuove, nella richiesta di una riconciliazione con il mondo. Una sarabanda che ha il suo culmine quando Palermo sale sul carro, gridando, per bocca del suo sindaco: “Viva Palermo e Santa Rosalia!”. Il rito è stato officiato da un Roberto Lagalla con l’emozione impressa sul viso: sperando che gli applausi e il calore siano di buon auspicio.

Ma poi, dopo l’opulenza dei segnali visivi e acustici, si sente il bisogno urgente di metterla a fuoco quella speranza, di trovare le parole adatte, nel silenzio. E le parole le trova, come accade in molte occasioni, l’arcivescovo di Palermo, monsignor Corrado Lorefice (nella foto in un momento della messa a Palazzo delle Aquile): “Se Lucia, se Agata, se la nostra Rosalia, se il Beato Pino Puglisi hanno fatto della loro stessa vita un canto; se i nostri fratelli martiri delle mafie non hanno fatto altro che cantare una Palermo ricolma di aria pulita, di dignità, di coraggio, allora cosa mai potrà toglierci questa capacità, questa volontà di cantare?”. Un canto, questa è l’essenza: nella purissima dimensione in cui, prima ancora dell’idea, si manifesta il suono per afferrare l’animo smarrito e spingerlo a guardare dalla parte opposta alla rassegnazione.

Ieri, don Corrado – come ama essere chiamato – nel suo discorso alla città, mentre si svolgeva la processione dell’urna con le reliquie della Patrona – ha ripreso quel canto. E lo ha messo davanti ai palermitani, come uno specchio, come una carezza, come un augurio, come una verità: “È Rosalia che ci dice: ‘Palermo mia, ricordati dei tuoi figli. Ricordati stasera che Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, gli agenti della loro scorta, Carlo Alberto Dalla Chiesa e tutti gli altri (Mattarella, La Torre, Chinnici, Cassarà, ecc.) hanno seminato la loro vita nella tua terra perché nascessero i fiori della giustizia, della bellezza, della gioia di vivere. Sono loro il principio della tua primavera, della tua rinascita, perché hanno fatto quello che ho fatto io: hanno cantato la vita con il dono della loro esistenza’”.

Un altro passaggio: “Se Lucia, se Agata, se la nostra Rosalia, se il Beato Pino Puglisi hanno fatto della loro stessa vita un canto; se i nostri fratelli martiri delle mafie non hanno fatto altro che cantare una Palermo ricolma di aria pulita, di dignità, di coraggio, allora cosa mai potrà toglierci questa capacità, questa volontà di cantare?”. Il canto della Santuzza nel cuore della città, ecco quello che resta e nessuno può togliercelo. Un canto dolcissimo che appartiene a tutti e risuona, da quando Palermo è Palermo, in tempo di guerra. (Roberto Puglisi)


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