La sequenza interminabile di donne uccise per mano di uomini, senza lo straccio reale di un movente convenzionale, è un drammatico problema sociale di fronte al quale preferiamo continuare a ripetere spiegazioni che non spiegano nulla, invece di capire che siamo di fronte a qualche cosa di inedito e per quanto mi riguarda pauroso.
Pauroso perché ormai ne constatiamo gli esiti, li esorcizziamo con le sole motivazioni culturali legate alla riluttanza con cui gli uomini non vogliono rinunciare alla secolare condizione di possesso e di determinazione di una vita che non è di loro proprietà.
In ogni cambiamento profondo che modifica in meglio, umanamente parlando, il nostro modo di vivere, esistono fisiologiche resistenze al cambiamento di chi da questo subisce un ridimensionamento, ma tutto questo, normalmente, avviene seguendo il filo di una reazione razionale che segue le storiche leggi dei rapporti di forza.
Siamo di fronte ad una cosa del genere? Vi sembra plausibile? Vi sembra normale che una persona, ad esempio, come me ( e con me migliaia di donne e uomini nati al principio degli anni sessanta) che ha vissuto fino a vent’anni dentro un contesto legislativo che ancora mi legittimava ad uccidere una mia fidanzata con la scusante e l’attenuante del motivo passionale, che nel momento in cui si aggiungeva anche la mia minore età mi permetteva quasi l’impunità, oggi, che la galera non me la toglie nessuno ( con tutto quello che ne deriva) mi svegli la mattina e uccida una donna per motivi sentimentali? Vi sembra possibile, visti i numeri indecenti di donne uccise, che si possa parlare di patologie psicologiche o tare culturali?
Vi sembra intelligente insistere, quindi, sul combinato disposto di queste ed altre spiegazioni che hanno come punto debole il semplice fatto che non spiegano nulla? Inoltre. Siamo sicuri che sia intelligente separare questa carneficina da altre non meno orribili, come, solo per esempio, le ormai abituali stragi nelle scuole o in altri luoghi, soprattutto del Nord America?
Non è che negli anni cinquanta del secolo scorso, negli Stati Uniti, girassero meno armi di oggi, ma è oggi che esse vengono usate per uccidere senza moventi convenzionali. Questo è il nodo della questione. L’assenza di moventi convenzionali, interni alle relazioni sociali (soldi, potere, ideologie politiche) e l’esistenza di moventi esclusivamente emotivi, umorali, istintivi e legati alla vita interpersonale o, al massimo, familiare.
Il famoso delitto passionale di un tempo, pur chiamandosi così, era una copertura di una società maschile, finalizzata non a salvare gli assassini dalle loro passioni ma a proteggerli nell’esercizio della loro posizione di potere sulle donne. Era di fatto una guarentigia mascherata per maschi consapevoli di questo soppruso. Oggi no. Questi uomini che uccidono le donne, quando non si ammazzano anch’essi, rovinano senza alcun guadagno egoistico la loro stessa vita.
Questo dovrebbe farci paura. Perché io non temo chi vuole approfittare della vita per farne ciò che vuole fregandosene delle conseguenze sugli altri e raggiungendo il proprio guadagno. Uno così lo combatto e so come fare. Io temo chi vive e si comporta senza nemmeno uno straccio di egoismo ed è pronto a fare qualsiasi cosa non curandosi delle conseguenze e in mancanza assoluta di tornaconto. Come si fa a non capire che siamo di fronte a comportamenti di quest’ultimo genere, perpetrati soprattutto da uomini contro le donne, ma non solo, e soprattutto con una dimensione di massa.
Se è come dico, può una maggiore e più radicale repressione incidere sulla questione? Un uomo che non teme le pesanti conseguenze in vigore ed è indifferente ad una qualsiasi analisi sui costi e i benefici delle sue azioni, non avrebbe timore nemmeno della fucilazione. Possono i soli processi culturali fare qualche cosa su una questione che, a mio modo di vedere, senza accorgercene, sta diventando profondamente antropologica?
Io credo fermamente che gli uomini e le donne che hanno accettato d’essere lentamente rieducati ad una vita che ha, come sola dimensione preponderante, quella biografica, familiare, relazionale, sentimentale ed emotiva, corrono il pericolo costante di perdere ogni motivazione a vivere quando crollano le strutture dove essi esercitano questa dimensione.
Che siano gli uomini i maggiori responsabili delle conseguenze di questa vita senza obbiettivi sovrabiografici e comunitari, senza alcun coinvolgimento in nessun altro destino che non sia il proprio, è sì, questo, uno strascico ancora presente di una egemonia patriarcale. Perché è ovvio che è colui che crede, senza più alcun motivo, di essere il depositario di una supremazia, a non capacitarsi del crollo di una relazione, di un rapporto, di una famiglia, rimaste le sole realtà dove fare valere questa fallace forma autoritaria.
Se non fosse mai esistito questo secolare ma ormai quasi chiuso passaggio storico di discrimazione della donna, probabilmente donne e uomini sarebbero stati coinvolti in maniera paritaria in questa conseguenza antropologica della scomparsa della dimensione comunitaria della vita. Questo non è così, e le donne quindi pagano la ferocia maschile, perché sono le donne che ancora reggono in piedi quella ambiziosa volontà di una vita che non può essere chiusa dentro quattro mura domestiche.
Le donne sono inconsapevolmente attrici di questa evoluzione non comunitaria delle nostre società. Lo sono perché non avendo per secoli avuto la possibilità di essere influenti sulla vita collettiva ora vogliono impersonare quei ruoli di influenza e, proprio perché lo vogliono, sono quelle che potrebbero arrestare questa deriva di asocialità strutturale verso la quale ci stiamo inesorabilmente avviando.
Se vogliamo salvare dal feroce e omicida autolesionismo gli uomini e dalla morte molte donne, dobbiamo tutti riprendere in considerazione un elementare e ontologico principio dell’umano: la nostra biografia, la nostra famiglia, la nostra vita sono secondarie e prescindono dalla sovrabiografia, dalla città, dalla storia, da questa grande impresa millenaria collettiva, con un destino altrettanto grande a cui bisogna tornare a credere.