PALERMO – Sessanta mila euro: 258 euro per ciascuno dei 235 giorni trascorsi ingiustamente in carcere. A tanto ammonta il risarcimento danni liquidato ad Antonino Fontana, ex militante comunista e vice sindaco nella Villabate degli anni Ottanta.
Nel 2013 si è concluso in Cassazione il processo che lo vedeva sotto accusa insieme ad altri imputati. In primo grado era stato condannato a sette anni, poi arrivò l’assoluzione in appello e quella definitiva davanti ai supremi giudici che respinsero il ricorso della Procura generale, dando ragione ai legali della difesa, gli avvocati Michele Giovinco e Nino Caleca.
Fontana si tolse di dosso quello che lui stesso ha sempre definito il “marchio infamante” di essere andato a braccetto con i mafiosi. Con uno in particolare: Simone Castello, legato all’ala corleonese di Cosa nostra. I due erano soci in un’impresa agricola. La storia ci ha raccontato che Castello ha fatto carriera nelle file della mafia, fino a diventare il postino di Bernardo Provenzano; mentre Fontana si è fatto avanti negli apparati del vecchio Pci che ha fatto del mondo cooperativo un suo punto di forza.
Quando era in piedi la società Castello, però, era un rispettabile imprenditore sconosciuto alle forze dell’ordine. I loro erano “normali rapporti di lavoro”. Il grande accusatore di Fontana era il collaboratore di giustizia Salvatore Barbagallo, la cui attendibilità è scricchiolata in parecchi processi. Barbagallo ricostruì pure il presunto appoggio fornito da Fontana alla mafia per riciclare il denaro sporco attraverso un’azienda di prodotti agricoli che operava in Romania. Un mega affare smentito, però, da un altro pentito, Nino Giuffrè, alla cui collaborazione, però, è sempre stato attribuito uno spessore maggiore rispetto a quella di Barbagallo.
Il pentimento di Giuffrè è stato ampio. L’ex braccio destro di Provenzano, sottolineano i giudici della Corte d’appello presieduta da Salvatore Di Vitale, ha dimostrato di avere violato “ogni vincolo di fedeltà” a Cosa nostra e dunque non ha “alcun valido motivo” per negare le accuse di Barbagallo. I giudici che gli hanno riconosciuto l’ingiusta detenzione hanno ripercorso le tappe del processo da cui è venuta a galla “la carenza di prova” del reato di associazione mafiosa.
Il giorno dell’assoluzione in appello Fontana raccontò i drammatici giorni dell’arresto, avvenuto nel 2003, e puntò il dito contro alcuni vecchi colleghi di partito. Di cui, però, non faceva il nome. Li definì “bambini vestiti da uomini che devono rispettare le sentenze. Mi riferiscono ai tanti bambini che hanno fatto politica negli ultimi vent’anni e lo hanno fatto in modo sleale. Dico loro di servirsi di altri mezzi”.
A proposito di politica, nel corso del processo è stato pure smentito che Fontana avesse appoggiato i candidati sponsorizzati dalla famiglia mafiosa dei Mandalà. Circostanza che faceva a pugni con la ricostruzione di un comizio del 1998, nel corso del quale Fontana attaccò il boss Nino Mandalà definendolo “il re nudo”.