Un uomo non può liberarsi del passato più facilmente di quanto possa farlo del suo corpo, scriveva l’erudito biografo André Maurois. Mentre arriva da New York la notizia che WhatsApp ha reso possibile su Android la criptazione dei messaggi, in modo che siano decifrabili soltanto da chi li scambia, e non solo per rassicurare gli utenti vittime di pirati informatici e spioni vari, ma anche per tutelare i contenuti di quella che è diventata una delle più diffuse forme di comunicazione su smartphone, ecco la notizia-bomba: tra poco sarà a disposizione degli utenti di Twitter un motore di ricerca capace di risalire a ogni tweet da quando esiste il social network. Sarebbe a dire, da otto anni a questa parte. Come ha scritto, con la consueta ironia, Stefano Bartezzaghi su Repubblica, potrebbe così configurarsi una gigantesca fonte contemporanea di notizie per storici, sociologi e categorie affini, ma ai comuni fruitori della rete la notizia non giunge poi così gradita.
Cinguetta oggi e cinguetta domani, sembrava normale lasciarsi il lungo e consueto cantico alle spalle, e in modo definitivo. E, invece, ecco che una sciocchezza detta in un pomeriggio uggioso ci si può ritorcere contro: come recita l’abusata solfa dei polizieschi, avevamo il diritto di tacere, ma, posto che non l’abbiamo fatto, tutto quello che abbiamo detto può essere usato contro di noi. Una sinistra sequela di esternazioni, serie o scherzose, rabbiose o malevole, persino cretine, che costellano il nostro recente passato, piuttosto che essere consegnate a un mite e inoffensivo cestino, eccole tutte lì, schierate. Da noi partorite ma pronte a divorarci, a diventare la forza del nostro nemico prossimo. AIUTO! Ma chi si ricorda cosa ho scritto nel febbraio del 2007? Nel marzo 2010? BOH! E poi, con riguardo ai giovani, che un manifesto rivoluzionario redatto nell’età delle grandi passioni li possa perseguitare quando andranno a cercar lavoro in ambienti, diciamo, conservatori, o che una stagione da seguace di un personaggio o di una causa diventi un elemento a loro carico, dipenderà solo da come opinioni espresse “liberamente” in una certa fase della propria vita verranno rilette e utilizzate da chi ricostruisce un curriculum, che lo si voglia o meno.
Una corretta risposta pubblica al problema, dovrebbe passare attraverso la prevenzione, informando già dalle scuole elementari i piccoli ma agguerriti utenti che sms, chat, post, tweet e quant’altro tendono a cristallizzare ogni esternazione, dal momento ludico allo sfogo dettato da una passeggera follia. E, diciamola tutta, anche un solenne errore di grammatica, o un pesante svarione, come ben sa la nostra colta classe politica. Il linguista Giuseppe Patota, nel corso di una intervista rilasciata a Roberto Zanini, citava i “qual’è” apostrofati di Roberto Saviano su Twitter, o gli approssimativi gerundi di Beppe Grillo che in un videomessaggio ripete “liquefando”, lo smarrimento dell’h di Luigi De Magistris, che su Twitter scrive “anno” e “a” quali voci del verbo avere. Per non tacere dell’ormai leggendario post della deputata 5s Tatiana Basilio, che postando una docu-fiction, scambiata per un vero documentario, dichiarava su Facebook di credere fermamente all’esistenza delle sirene, della quale, assicurava, ci sono “prove schiaccianti”, scatenando il sarcarsmo dei media.
Scambiarsi informazioni è natura; tener conto delle informazioni che ci vengono date è cultura, scriveva Goethe, ma il povero Wolfgang dava per scontato che chi scriveva sapesse scrivere. Il blog Oneprint ha cumulato, sotto il titolo 21 errori grammaticali che copywriter, politici e giornalisti fanno sul web, una serie di strafalcioni nei tweet dei politici, nei blog, nei giornali online, nei comunicati stampa di istituzioni culturali e, udite udite, nelle landing page di master sulla comunicazione. Che vanno da quelli di battitura (nessuno è immune dal più banale refuso) a quelli gravi. Gli errori grammaticali più reiterati sul web sono relativi all’uso dell’apostrofo, degli accenti e delle doppie, alla mancata accentazione del verbo essere, alla mancata h nel verbo avere e… al massacro dei congiuntivi! Uno dei lemmi più frequentemente strapazzato è “legittimo”, che si enfatizza con un g aggiuntiva, forse per imprimere maggior forza alla legalità. Come l’errore, poi, una volgarità (il tweet di Gasparri a commento della vittoria degli Azzurri sull’Inghilterra in Brasile ha provocato persino un articolo sull’autorevolissimo Guardian, dall’espressivo titolo Italian politician under fire after labelling English “pretentious pricks”), scritta nell’etere, eterea non è: rimane in bacheca, nella posta, nei messaggi ricevuti dai destinatari.
Cancellare non è un atto di volontà che dipenda solo da noi, mentre scrivere (possibilmente sciocchezze) lo è stato. Altro che diritto all’oblio! Pare, scusate la contradictio in adiecto, che ce ne possiamo scordare! Da quando, il primo giugno 2014, la sentenza della Corte di Giustizia Europea sul diritto all’oblio è diventata esecutiva, i motori di ricerca, Google in testa, hanno, sì, reso possibile agli utenti richiedere la rimozione di link che contengono informazioni personali, ma poiché sono stati inondati dalle richieste, vanno a rilento nel vagliarle. Neanche a dirsi, il sito rispetto al quale vengono avanzate maggiori richieste di rimozione è Facebook, che consente di tutto e di più! Le tematiche concernenti il diritto all’oblio, in realtà, hanno poco a che vedere con la bufala in rete o lo scivolone sintattico e concettuale di turno. Riguardano il mondo dei media, e quella giungla senza regole che è il web, con una facilità capillare di accesso a ogni genere di informazione che ha generato, per alcuni, l’esigenza di far sparire certe notizie. Inoltre, nelle more di una legiferazione organica, è nata una giurisprudenza che, caso per caso, stabilisce se autorizzare o no la cancellazione di dati.
Come è naturale, vi sono in merito opinioni contrastanti, specie a causa del divario ideologico tra il diritto di cronaca e la tutela della privacy. Secondo alcuni, ammettere il diritto all’oblio significa sdoganare nuove forme di censura e, punto sul quale siamo tutti concordi, nell’attuale caos normativo vi è ancora spazio per peggiorare la situazione. Cosa sta accadendo nella (ormai vuota) culla del diritto che è il nostro Paese? Siamo alle soglie di un altro guazzabuglio normativo? Nella Carta dei diritti di Internet, redatta da una Commissione presieduta da Rodotà, si tratta del diritto all’oblio al punto 10, che recita: “Ogni persona ha diritto di ottenere la cancellazione dagli indici dei motori di ricerca dei dati che, per il loro contenuto o per il tempo trascorso dal momento della loro raccolta, non abbiano più rilevanza”. Tutto chiaro. Immediatamente dopo, leggiamo, però, che “Il diritto all’oblio non può limitare la libertà di ricerca e il diritto dell’opinione pubblica a essere informata”. Ma, a questo punto, ecco che “Tale diritto può essere esercitato dalle persone note o alle quali sono affidate funzioni pubbliche solo se i dati che le riguardano non hanno alcun rilievo in relazione all’attività svolta o alle funzioni pubbliche esercitate”. Via alla bagarre! Pronti al fantagiuridico, rispetto al quale la consultazione pubblica è ancora in corso, ricordiamo che il tema è contemplato nel testo della legge sulla diffamazione approvata dal Senato alla fine di Ottobre, anche se, come sostengono gli esperti delle leggi sull’informazione, giuridicamente non ha a che vedere con la diffamazione. Invece è inserito, come per caso, nel testo di legge, al momento al vaglio della Camera, al primo comma dell’articolo 3: “Fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti, l’interessato può chiedere l’eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di disposizioni di legge”. Ma perché introdurre, o relegare, la tutela del diritto all’oblio in una legge che deve garantire il libero e responsabile esercizio dell’attività di informazione quale bene pubblico? Naturalmente, nell’infuriare del conflitto tra posizioni diverse, di vincitore ne resterà soltanto uno, l’ultimo immortale: Google.