PALERMO – Beni per un milione e trecento mila di euro tornano al legittimo proprietario, tre anni e mezzo dopo essere finiti sotto sequestro. Si tratta di un’azienda agricola che produce latte, terreni e disponibilità finanziarie di Giovanni Simonetti, originario di San Giuseppe Jato e oggi detenuto. Non solo non c’è sproporzione fra i suoi affari e i suoi beni, ma non è socialmente pericoloso. Secondo i giudici, ha troncato i rapporti con la mafia. Appena avrà finito di scontare la condanna per estorsione avrà saldato definitivamente il conto con la giustizia.
Nel 2012, su proposta della Procura, la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, allora presieduta da Silvana Saguto, oggi indagata e sospesa dal Csm, fece scattare il provvedimento. Ora il nuovo collegio – composto dal presidente Giacomo Montalbano e dai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini – ha rigettato la proposta di applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale nei confronti di Giovanni Simonetti e dei figli Gianluca e Giovanna, assistiti dagli avvocati Vito Ganci, Massimo Motisi, Alessandro Campo e Cinzia Calafiore.
Nel corso del procedimento la difesa ha dimostrato l’assenza della pericolosità sociale di Simonetti, nonché la congruenza del patrimonio con il reddito dell’intero nucleo familiare. Simonetti, 56 anni, già condannato negli anni ’80, alla fine del decennio successivo finì di nuovo in cella: fece da maediatre per un’estorsione voluta da Giovanni Busca ai danni di due imprenditori.
Simonetti ammise la sua colpa, ma disse di averlo fatto solo a fin di bene per aiutare le vittime, temendo che Brusca facesse loro del male. Tanto che non ebbe in cambio alcuna somma di denaro. Circostanza, quest’ultima, confermata dallo stesso collaboratore di giustizia. C’è di più: Battaglia aggiunse di avere addirittura contribuito, all’insaputa delle vittime, sborsando i soldi necessari per raggiungere la cifra pretesa da Brusca. Un particolare confermato dall’incrocio dalle dichiarazioni degli imprenditori (“Abbiamo versato 180 milioni di lire”) e di Brusca (“Ho incassato 200 milioni”). I venti milioni che mancano all’appello li avrebbe versati Simonetti che era molto amico del padre delle vittime, solo che non ha mai potuto dimostrare di avere detto la verità.