PALERMO – I due imputati, Mario Mori e Mauro Obinu, hanno chiesto di fare dichiarazioni spontanee. Poi, i giudici della Corte d’appello sono entrati in camera di consiglio, della quale è impossibile stabilire i tempi.
La richiesta di condanna è 4 anni e mezzo per Mori e 3 anni e mezzo per Obinu. Praticamente la metà di quanti ne furono chiesti nel processo di primo grado, al termine del quale i due ufficiali del Ros dei carabinieri furono assolti. Non importa sapere perché i due imputati non avrebbero arrestato Bernardo Provenzano, ma basta, secondo l’accusa, avere accertato che abbiano commesso il reato. Codice alla mano; il movente non serve.
La Corte presieduta da Salvatore Di Vitale analizzerà ogni passaggio di quella che è stata la rivoluzione voluta dal procuratore generale Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio. Una rivoluzione che si è concretizzata nella rinuncia a contestare ai due imputati l’aggravante mafiosa e quella della Trattativa. È rimasta in piedi quella per avere commesso il reato ricoprendo la qualifica di pubblico ufficiale.
L’accusa ha voluto ridare al processo una “vita autonoma “. Secondo i pm di primo grado, malgrado i carabinieri fossero a un passo dalla cattura del padrino corleonese a Mezzojuso fecero un passo indietro in nome della ignobile ma presunta Trattativa che costitutiva il movente del mancato blitz. Ecco il passaggio rivoluzionario in secondo grado: prescindere dalla necessità di dimostrare il movente perché “la legge non lo richiede” e concentrarsi sul fatto che saremmo di fronte a fatti gravissimi. Perché la Procura generale non ha fatto sconti agli imputati.
In particolare, a Mori cui sono stati rimproverati anni di “manipolazioni, falsi documentali e condotte che hanno oltrepassato i limiti della legalità e giustificate con l’adempimento del dovere”. Scarpinato ha parlato di un comune denominatore nella carriera di Mori che si evidenzia a partire dalla mancata perquisizione del covo di Riina, per continuare col mancato arresto del boss Nitto Santapaola e poi col fallito blitz in cui, per l’ accusa, si sarebbe potuto catturare Provenzano il 31 ottobre del 95. Azioni caratterizzate da “menzogne reiterate”. Il pg ha accusato i due imputati di avere per mesi trascurato volutamente le indicazioni fornite al colonnello Michele Riccio dal suo confidente Luigi Ilardo. E di avere taciuto alla Procura gli elementi che avrebbero potuto portare all’identificazione dei favoreggiatori del boss.
Un filo rosso, secondo Scarpinato e Patronaggio, legherebbe diversi avvenimenti che videro Mori protagonista: come la mancata perquisizione del covo del boss Totò Riina. “Se Mori avesse avvertito la Procura che stava per sospendere il servizio di osservazione al covo – ha detto – la Procura avrebbe immediatamente perquisito il nascondiglio scoprendo documenti scottanti che avrebbero potuto svelare i segreti di un potere che, declinando i volti di uomini dello Stato come Andreotti, per decenni avevano avuto rapporti con Riina”. Nelle condotte di Mori vien vista “una omogeneità e il fine di assecondare interessi extraistituzionali”. Uno scenario in cui si innesterebbe il mancato arresto di Provenzano.
Balle, secondo in legali degli imputati, gli avvocati Basilio Milio ed Enzo Musco. Le testimonianze dei collaboratori di giustizia Giovanni Brusca, Stefano Lo Verso e Sergio Flamia, che avrebbero paradossalmente dato ragione alla difesa, e le deposizioni dei testi come Giuseppe Pignatone, attuale procuratore di Roma, che hanno sistematicamente smentito il colonnello Michele Riccio, grande accusatore di Mario Mori e Mauro Obinu.”Siamo all’assurdo – hanno detto – perché è come dire che gli imputati hanno voluto favorire Provenzano ritenendolo un criminale comune e non il capo di Cosa nostra”.