PALERMO – I finanzieri della Polizia tributaria entrano in un santuario di quella imprenditoria considerata mafiosa, ma uscita indenne dai processi. Indenne seppure arricchitasi, secondo l’accusa, all’ombra dei grandi boss.
La sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo mette i sigilli ai beni del costruttore Francesco Paolo Alamia: cento immobili e decine di terreni, tre imprese, 21 rapporti finanziari, 900 mila euro depositati in alcuni conti correnti. Il patrimonio che vale più di 15 milioni di euro passa in amministrazione giudiziaria.
Il figura di costruttore sta stretta all’ingegnere Alamia da Villabate, popoloso centro alle porte di Palermo. Perché a partire dagli anni Settanta è stato anche immobiliarista e finanziere. In principio fu Giovanni Falcone ad occuparsi di lui. O meglio, si occupò del fallimento della Venchi Unica. Poi, un ventennio dopo le indagini avrebbero iniziato a fare emergere altro. Innanzitutto che negli affari Alamia avrebbe agito per nome e per conto di don Vito Ciancimino, ma anche che sarebbe stato vicino a uno dei killer più spietati di Cosa nostra, Pino Greco, detto scarpuzzedda.
Alamia, che è stato anche consigliere comunale democristiano a Palermo, oggi ottantaduenne, in passato è finito sotto inchiesta per mafia. Nel 1997 arrivò l’archiviazione. Era la stessa inchiesta chiusasi con un nulla di fatto nei confronti di Silvio Berlusconi e dell’imprenditore Filippo Alberto Rapisarda.
Si è scavato nella sua vita a partire dagli anni ’70 quando la sua storia si intrecciò con quella di Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. In quegli anni Alamia era azionista di controllo e rappresentante legale della Inim – Internazionale Immobiliare, una spa costituita a Palermo nel 1976 e poi trasferita a Milano. Divenne un colosso immobiliare che acquistava grandi aziende fallite proprietarie di terreni edificabili in Lombardia, Piemonte e Lazio per realizzare enormi speculazioni edilizie. Nei primi anni Ottanta i coimputati Rapisarda e Rocco Remo Morgano, nonché i pentiti Gioacchino Pennino e Tullio Cannella di lui dissero che, seppure non formalmente affiliato a Cosa nostra, era un imprenditore di riferimento per Bernardo Provenzano, Totò Riina e Vito Ciancimino.
Più di recente, a metà negli anni Novanta, su indicazione di un altro Ciancimino, Massimo, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, il suo nome finì nel calderone delle indagini sfociate nel processo e nella condanna di Dell’Utri. Di Alamia Ciancimino jr disse che investiva, attraverso la Inim, le tangenti del padre a Milano. L’inchiesta non ebbe uno sbocco giudiziario.
Oggi, però, il collegio delle Misure di prevenzione, composto dai giudici Montalbano, Petrucci e Francolini, sottolinea che “la lettura delle dichiarazioni assunte nel tempo consente di superare il giudizio di insufficienza probatoria posto a fondamento dell’archiviazione del 1997”. Come dire, le prove che allora non bastarono a mandare sotto processo Alamia sono sufficienti per ritenerlo ”socialmente pericoloso”. C’è “l’evidente sospetto di avere svolto la sua carriera di imprenditore edile con l’appoggio di Cosa nostra”.
Da qui la richiesta di sequestro avanzata dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Bernardo Petralia e dal sostituto Daniela Varone. Gli uomini del Gico della Finanza, coordinati dal comandante provinciale Giancarlo Trotta e da quello della Polizia Tributaria, Francesco Mazzotta, sono andati a sequestrare un patrimonio enorme che comprende le società Vis Costruzioni e Immobiliare Mille, e una miriade di case e terreni. Non è tutto perché di recente il nome di Alamia è saltato fuori in un’altra brutta vicenda, la scomparsa degli imprenditori Antonio e Stefano Maiorana.