PALERMO – Viene definito rito abbreviato, ma le cronache giudiziarie insegnano che spesso i processi sono tutto fuorché abbreviati.
A chiedere il rito alternativo è l’imputato, la cui scelta è dettata da una precisa strategia processuale. Ottenere uno sconto di pena – un terzo in meno – di fronte a prove che già in fase di indagini preliminari appaiono granitiche. Oppure provare a smontare subito quelle stesse prove che sono tutt’altro che solide. Al di là delle strategie processuali, il vero obiettivo è fare presto. Staccarsi, il prima possibile, dalla graticola. Perché se si è un personaggio pubblico il processo finisce per diventare anche, e in alcuni casi soprattutto, mediatico.
L’imputato chiede di fare presto e lo Stato è obbligato ad accogliere la sua richiesta. Ecco perché il processo viene celebrato “allo stato degli atti” – non davanti a un Tribunale, ma a un giudice per l’udienza preliminare – in deroga al principio secondo cui, la prova si forma in dibattimento nel corso del confronto in aula fra accusa e difesa. Ma è la categoria temporale del “presto” che viene mortificata dai tempi impietosi di alcuni processi su cui pesa, nel caso di Palermo, la cronica carenza di magistrati nella sezione Gip-Gup. Si tratta dei giudici che non solo emettono sentenze, ma firmano anche le ordinanze di arresto, le proroghe di indagine e valutano i decreti di intercettazioni che a Palermo sono copiosi. Di recente sono arrivare forze fresche, ma siamo lontani dalla fine dell’emergenza, tanto che nei mesi scorsi c’è stato un confronto dai toni aspri fra i giudici e i pubblici ministeri “preoccupati” per le richieste di misure cautelari che aspettano di essere sbloccate.
Le recenti cronache ci suggeriscono tre esempi. Sono esempi “noti” per la rilevanza pubblica dei personaggi sotto processo – Calogero Mannino, Antonio D’Alì e Raffaele Lombardo -, ma i palazzi di giustizia sono pieni di imputati che non fanno notizia, ma vivono analoghe situazioni. L’ex ministro Mannino è stato assolto nel novembre scorso nello stralcio del processo sulla trattativa Stato-mafia. Assolto a due anni di distanza dall’inizio del processo (4 dicembre 2013) e quasi tre dal momento (4 marzo 2013) in cui i legali di Mannino chiesero il giudizio abbreviato. Già allora il giudice per l’udienza preliminare Piergiorgio Morosini, contestualmente alla decisione di mandare sotto processo tutti gli altri imputati, avrebbe potuto decidere le sorti processuali di Mannino. Così non è andata. Morosini chiese di astenersi perché era già entrato nel merito delle accuse per rinviare a giudizio gli altri imputati. Il fascicolo finì così sul tavolo del giudice Marina Petruzzella che era stata designata Gup supplente qualora si fosse verificato un qualsiasi impedimento di Morosini. Il processo davanti al nuovo giudice iniziò il 4 dicembre 2013. E anche allora la sentenza sarebbe potuta arrivare subito. Quando tutto sembrava pronto – certo al nuovo giudice andava dato il tempo di studiare la causa – nel settembre 2014 la Petruzzella chiese l’acquisizione di nuove carte. A novembre arrivò l’assoluzione, nonostante la pesante richiesta di pena dei pm Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia. E non è finita, perché i pm potrebbero fare appello contro l’assoluzione. Prima di decidere, però, attendono di leggere le motivazioni dell’assoluzione. Motivazioni che ancora non sono state scritte. La Petruzzella, nel frattempo trasferita in Corte d’assise, aveva previsto novanta giorni per scriverle. Poi, ha chiesto altri tre mesi di tempo. Termine già scaduto da un po’. Si attende.
E’ già approdato in appello, invece, il processo al senatore trapanese Antonio D’Alì. Siamo alle battute finali del giudizio di secondo grado. Il sostituto procuratore generale Domenico Gozzo, pochi giorni fa, ha chiesto la condanna a sette anni e quattro mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo l’estate, sarà la volta delle arringhe difensive. Poi, la sentenza. Il senatore chiese l’abbreviato nel maggio del 2012. Un anno dopo, giugno 2013, arrivò la richiesta di condanna dei pm. Il 30 settembre dello stesso anno il Gup Giovanni Francolini assolse l’imputato per i fatti successivi al 1994 mentre dichiarò prescritte le contestazioni precedenti al 1994. Prima, però, dovette misurarsi con un’integrazione probatoria vestita in abito talare, e cioè con la deposizione di Ninni Treppiedi, il sacerdote trapanese sospeso a divinis per una storia di ammanchi milionari alla Curia di Trapani. Il processo in appello è iniziato a settembre 2015 e ha pure conosciuto l’intoppo per il trasferimento di un giudice. È stato necessario nominare un nuovo collegio.
Tempi tutt’altro che abbreviati anche per l’ex presidente della Regione, Raffaele Lombardo. La richiesta di abbreviato condizionato risale all’ottobre 2012. Condizionato – il codice ne dà facoltà – ad alcune richieste dello stesso imputato. Nel caso dell’ex governatore si trattava dell’audizione di alcuni testimoni e all’acquisizione di alcune carte processuali. Lombardo fu condannato in primo grado nel febbraio del 2014 a sei anni e otto mesi per concorso esterno. Il processo d’appello, ancora in corso, è iniziato nel maggio dell’anno scorso. E non siamo alle battute finali.
I tempi della giustizia sono importanti. Un processo costa parecchio, in termini economici e di immagine. Ancor di più se si ricoprono incarichi pubblici. Se è pure lungo diventa insostenibile, specie nei casi in cui, all’inizio di tutto, si è chiesto allo Stato di fare in fretta.