PALERMO – Una saga di mafia svelata dalle microspie. Nei nastri magnetici è rimasta impressa la storia di contrasti, paciate e passaggi di consegne nel potente mandamento mafioso di Porta Nuova. Una donna parlava e i carabinieri registravano.
Nell’ultimo decennio il cognome Lo Presti ha avuto un peso a Porta Nuova. Un gruppo di picciotti, oggi cinquantenni, si è fatto largo al vertice di uno dei più potenti clan di Palermo. Oggi sono tutti in carcere.
Per ultima, pochi mesi fa, ai domiciliari è finita Teresa Marino, moglie del reggente Tommaso Lo Presti. Sono state le parole della donna a svelare ai pubblici ministeri Demontis, Malagoli e Mazzocco una vicenda che inizia nel 2007. Era l’anno dei contrasti fra Tommaso Lo Presti e il cognato, Giovanbattista Marino. Tutta colpa del cugino di Lo Presti, quel Tommaso Di Giovanni che gli sarebbe succeduto nel ruolo di reggente del mandamento. “Abbiamo scoperto l‟infame, chi era che raccontava le cose…”, diceva la donna. Fu uno dei pochi e brevi periodi in cui i due cugini rimasero contemporaneamente liberi. “… poi a papà lo hanno arrestato subito… poi subito dopo pure lo zio Giovanni hanno arrestato… , spiegava Teresa Marino alla figlia e al genero. Tommaso Lo Presi finì in carcere il 7 febbraio del 2008, giorno del blitz della polizia “Old Bridge” che svelò l’esistenza, ancora forte, della connection fra la mafia sicula e quella americana. Nel dicembre successivo le porte del carcere si aprirono per Di Giovanni, coinvolto nel blitz Perseo che azzerò il tentativo di rifondare la cosa nostra di Palermo e provincia.
In quei mesi di libertà a cavallo fra il 2007 e il 2008 Lo Presti era rimasto in una posizione defilata: “… neanche gli hanno fatto fare niente a papà in quei mesi che è stato fuori… ci levò i manu”. Aspettava l’esito di un altro processo e dunque era opportuno evitare sovraesposizioni. Fino a quando Lo Presti fu costretto ad assumersi le proprie responsabilità. Nel gennaio del 2008, in coincidenza con l’arresto di un cugino omonimo, soprannominato il Lungo per evitare confusione, arrivò un ordine superiore. Ordine di scuderia da parte dello zio Gaetano Lo Presti, scarcerato due anni prima dopo essere rimasto un quarto di secolo in in cella per omicidio. Chiese al nipote di accollarsi l’onere di guidare il mandamento.
Aveva 52 anni lo zio Tanino quando nel 2008 decise di farla finita. Lo avevano arrestato nel blitz Perseo. Fu trovato impiccato nel carcere Pagliarelli, a Palermo. Un gesto, il suo, forse da collegare alle intercettazioni che lo riguardavano. Ad altri boss aveva detto di potere contare sull’appoggio di Giuseppe Salvatore Riina – figlio di Totò – per la rifondazione di Cosa Nostra. Era stato, però, smentito da un altro boss, Nino Spera, il quale sosteneva che il piccolo Riina, allora sottoposto a sorveglianza speciale, “era fuori da tutto” e per volere della madre “non doveva impicciarsi”.
Tanino fece in tempo a far sapere al nipote che doveva tornare rimettersi in gioco. Fu Masino Di Giovanni a comunicare a Tommaso Lo Presti che c’era bisogno di lui. E donna Teresa lo raccontava con soddisfazione: “… è salito il corto (soprannome di Tommaso Di Giovanni, ndr) e fa dice: ‘dov’è tuo marito?’ gli ho detto ‘è messo nel divano’. Dice, ‘andiamo pacchione (è il soprannome di Tommaso Lo Presti) devi venire con noi altri’. Il papà ci fa ‘dove devo andare?’, no, dice ‘ti vuole quello ha bisogno di te’… ‘ah… mi fa piacere dice se ha di bisogno’. Il papà non è che si faceva pregare… dice ‘ha bisogno mi fa piacere, sto venendo’”. Perché Tommaso Lo Presti, a detta della stessa moglie, è sempre stato un tipo “tosto… a diciotto anni… sempre ha avuto i soldi, si infilava ovunque e si faceva dare i soldi, tipo il coso dello zio Salvo gli diceva voglio la parte”.
Lo zio Salvo è Salvatore Pispicia, altro uomo d’onore del mandamento di Porta Nuova nonché cognato di Lo Presti per averne sposata una sorella. Anche Pispicia è uno che ha fatto la trafila. “Rubava i camion”, ma “faceva le cose sistemate”, e così si ritagliò un posto di rilievo nella nuova cosa nostra.