PALERMO – Ventotto anni di carcere. La Cassazione rende definitiva la somma di quattro pene per Cesare Lupo, boss di Brancaccio, rinchiuso al 41 bis.
Lupo in carcere c’è tornato nel 2011, quando le indagini della sezione Criminalità organizzata della Squadra mobile, coordinate dai pm Caterina Malagoli e Francesca Mazzocco, lo piazzarono assieme ad Antonino Sacco e Giuseppe Faraone nel triumvirato alle dipendenze del capo mandamento Giuseppe Arduino, l’uomo incaricato di gestire il patrimonio dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. La sorella Nunzia da Roma avrebbe controllato che tutto andasse per il verso giusto.
Mentre scontava una prima condanna per mafia nel carcere di Catanzaro, Lupo trovò tempo e voglia di laurearsi in Scienze giuridiche. Titolo della tesi: “Le estorsioni”. Una volta finita di scontare la pena, nel 2009, sarebbe tornato a dirigere il clan che ha proprio nel racket una delle principali fonti di guadagno.
La centrale operativa di Lupo si trovava nel suo luogo di lavoro, l’Az trasporti di via Cappello. Lì incontrava gli affiliati e dettava gli ordini per le estorsioni. Nel febbraio 2011 Giulio Caporrimo, reggente del clan di San Lorenzo, decise di convocare il gotha della mafia palermitana a Villa Pensabene, noto ristorante-maneggio allo Zen. L’obiettivo era serrare le file di un’organizzazione fiaccata dagli arresti. E Lupo non poteva mancare all’appuntamento. Vi arrivò insieme Sacco e Arduino.
Qualche tempo fa fu protagonista di un episodio insolito per un affiliato a Cosa nostra. Assisteva in silenzio e annotava in un taccuino, collegato in videoconferenza nella saletta del carcere di L’Aquila, le dichiarazioni di un imprenditore che disse di essere stato una sua vittima: “Lupo mi ha chiesto il pizzo dal 1992. Prima, 500 mila lire al mese e cinque milioni a Pasqua e Natale. Poi, sono diventati 500 euro mensili e 5 mila per le festività”. Al termine della deposizione Lupo chiese di fare dichiarazioni spontanee. Era un fiume in piena: “Eravamo amici. Come fratelli. Chiavetta lo sa qual è la verità. Se la faccia dire signor presidente. Mi ha chiesto di comprare un laboratorio all’asta assieme e io gli ho dato i soldi. Mi ha truffato. Si è venduto il bar e non mi ha dato niente. Si è fatto i soldi e non mi ha dato mai una lira. Andavamo a mangiare assieme. Dica la verità, altrimenti la verità la dico io. E di cose da dire ne ho altre”.