PALERMO – Doveva essere una punizione. Tra i mafiosi, liberi e detenuti, covava il malcontento per l’avvocato sbirro. Sbirro perché i clienti di Enzo Fragalà facevano ammissioni nei processi e rendevano interrogatori che mettevano nei guai i boss. Sbirro perché non aveva esitato, per difendere al meglio un suo assistito, a rendere pubblica la corrispondenza della moglie di un padrino della vecchia mafia.
Alla fine il clan mafioso di Porta Nuova decise di entrare in azione. La punizione diventò un massacro. Era inevitabile, vista la ferocia con cui furono inferti i colpi di bastone. “L’aggressione all’avvocato Fragalà ha rappresentato un violento attacco all’intera avvocatura – scrive ora il giudice Fernando Sestito -, è stata deliberata per ragioni che l’organizzazione mafiosa ha ritenuto particolarmente gravi. Per punire condotte professionali che sono state ritenute del tutto incompatibili con l’interesse dell’organizzazione e pericolose, in particolare, per la salvaguardia di concreti e rilevanti interessi economici, e, ancora prima, della fondamentale e irrinunciabile pretesa mafiosa alla salvaguardia delle regole dell’omertà e reciproca assistenza che caratterizzano la condotta di ogni associato nel momento del coinvolgimento in inchieste giudiziarie”.
Il giudice parla di un “graduale intensificarsi, negli aderenti all’associazione, di un atteggiamento di delusione e insoddisfazione nei confronti del professionista, sfociato in una incontenibile rabbia”. Un’insoddisfazione che ha origine nel 2002. Otto anni prima del delitto i servizi segreti stilarono un’informativa che inseriva l’avvocato Fragalà tra gli obiettivi di possibili ritorsioni mafiose. I boss si attendevano che il penalista, dopo averli difesi nei processi, una volta eletto in Parlamento, si sarebbe speso per loro. In particolare, per l’alleggerimento del regime del carcere duro. Non era andata così, tanto che trentuno detenuti al 41 bis scrissero una lettera all’allora segretario dei radicali, Daniele Capezzone, in cui attaccavano l’operato degli avvocati-onorevoli.
Nello stesso anno Leoluca Bagarella, davanti alla Corte d’assise di Trapani, pronunciava il suo proclama: “Siamo stanchi di essere strumentalizzati dalla classe politica, le promesse non sono state mantenute”. Quando nel febbraio 2010 Fragalà fu assassinato il boss pentito Ciro Vara chiese di parlare con i pm palermitani e raccontò un episodio di vita carceraria: “Nel 2002 mentre ero detenuto a Trapani, c’era anche Antonino Valenti, uomo d’onore di Castellammare del Golfo… ha manifestato intenzioni vendicative nei confronti di Fragalà”.
Ma è nella stagione immediatamente precedente al delitto che gli investigatori ritengono di avere raccolto i segnali di quel clima pesante che avrebbe finito per armare la mano degli assassini. Onofrio Prestigiacomo, pentito del clan di Bagheria, che di Fragalà era stato cliente, raccontò che “Bisconti Filippo, Andrea Carbone mi dicevano che ero sbirro perché mi tenevo ancora a Fragalà… perché uno che si fa interrogare è sbirro, diventa pentito…”.
“Curnuto e sbirru”, sono le parole con cui Francesco Arcuri, uno dei sei arrestati di ieri, avrebbe definito Fragalà pochi giorni prima del delitto, parlando con Francesco Chiarello, il collaboratore di giustizia che con le sue dichiarazioni ha fatto riaprire le indagini. Il penalista andava picchiato “senza portargli soldi o altri oggetti” in modo che capisse “che non è una rapina, deve capire che deve parlare poco”.
“Qui si innesta la concausa ultima e decisiva – scrive il gip Sestito – che ha definitivamente scatenato la furiosa reazione punitiva di Cosa nostra”. Nel periodo dell’omicidio Fragalà era impegnato nella difesa di Vincenzo Marchese e Salvatore Fiumefreddo, sotto processo con l’accusa di avere fatto da prestanome al capomafia di Pagliarelli, Nino Rotolo. Durante il dibattimento, in cui era imputato lo stesso Rotolo, i due indagati avevano reso delle confessioni. Gianni Nicchi, figlioccio di Rotolo, in un pizzino sequestrato dai carabinieri del Nucleo investigativo, sfogava la sua rabbia contro Marchese, definendolo “indegno”.
Secondo i carabinieri del Nucleo investigativo, l’episodio decisivo avvenne quattro giorni prima del pestaggio. Non può essere stata una banale coincidenza temporale. Fragalà aveva prodotto in udienza una lettera con cui la moglie di Rotolo si scusava con Marchese per i guai giudiziari provocati dal marito. Il capomafia ergastolano si era servito di lui per schermare i suoi beni. La donna se ne dispiaceva. Fragalà lesse alcuni passaggi della lettera in aula.
E così la sua punizione sarebbe divenuta inevitabile. Si mossero gli uomini di Porta Nuova che finirono per fare un favore anche ai rotoliani. C’era un profondo legame fra i due clan. Basti pensare che Arcuri era grande amico di Nicchi, astro nascente della Cosa nostra palermitana. La sera prima dell’arresto del latitante nel covo di via Juvara, a due passi dal palazzo di Giustizia di Palermo, se n’erano andati in giro per la città, di pub in pub, in sella ad una motocicletta. Non sarebbe casuale che Chiarello abbia dichiarato che “Gregorio (Gregorio Di Giovanni, ex capomandamento di Porta Nuova, ndr) lo doveva fare già prima questo, anzi si diceva quando c’era Gianni Nicchi”.
La nuova inchiesta sfociata negli arresti di oggi spazza via un altro movente che aveva minato l’onorabilità di Fragalà. In passato la collaboratrice di giustizia Monica Vitale riferì di avere sentito Tommaso Di Giovanni, pure lui in cella con l’accusa di essere stato un autorevole capomafia, mentre parlava con Gaspare Parisi, amante della Vitale. Fragalà non si era comportato bene con la moglie di un cliente, e il cugino dell’indagato avrebbe chiesto ai mafiosi di dare una lezione al penalista per il suo atteggiamento irrispettoso. Il cliente, però, era entrato in rotta di collisione con gli uomini del clan. Faceva furti senza autorizzazione e per questo decisero di bruciargli la macchina. La mafia avrebbe mai potuto fare un favore, uccidendo il povero Fragalà, ad una persona che si era meritata una punizione?