PALERMO – Il giudice gli ha concesso le attenuanti generiche. È l’unico riconoscimento per la sua scelta di collaborare con i magistrati che ha fatto scendere la pena a sei anni e mezzo. Alfredo Giordano, ex direttore di sala del Teatro Massimo, è stato condannato per mafia al processo che lo vedeva imputato insieme ai boss di Santa Maria di Gesù. È rimasto un dichiarante senza lo status dei collaboratori di giustizia. È il 23 novembre 2106 quando Giordano inizia a raccontare al pubblico ministero Sergio Demontis la sua storia di mafia, otto mesi dopo essere finito in carcere insieme ad altre sessanta persone.
Una storia che comincia nel 1986. Il primo e importante incarico fu la copertura di un boss in fuga: “Ammetto di avere curato la latitanza di Carmelo Zanca su richiesta di un mio socio, tale Urone Gaetano, deceduto. La situazione durò circa sei mesi, poi mi spaventai e cessai da tale attività”.
Zanca fu arrestato nel 1995 sul litorale di Torvaianica. Si faceva chiamare “signor Lupo” e aveva preso il posto di Pippo Calò, boss di Porta Nuova, per gestire affari a Roma. Il verbale prosegue con un altro pezzo da novanta della vecchia mafia: “Altro latitante che ho conosciuto è Ignazio Pullarà, nella marmeria di Di Marco Gaetano, nel 1989, dove il latitante si recava spesso. Recuperai in suo favore, richiesto da Di Marco Gaetano, dieci milioni di lire che Pullarà avanzava dal mago Sucato”.
Giovanni Sucato negli anni Novanta si guadagnò l’appellativo di “mago dei soldi”, promettendo di raddoppiare in breve tempo i capitali che gli venivano consegnati. All’iniziò fu davvero così, dalle sue mani transitarono 10 miliardi di lire, poi la truffa venne a galla. E c’erano cascati anche personaggi che contavano. Sucato morì nel 1996. Lo trovarono carbonizzato all’interno della sua auto, sulla superstrada Agrigento-Palermo, nei pressi del bivio di Bolognetta. Le circostanze della morte sono ancora oggi misteriose. Di certo, però, Sucato non ebbe alcun incidente con la sua macchina, trovata accostata al guard rail. Infine Giordano ammette di avere “conosciuto anche Giovanni Brusca” in un negozio, “ma lo vidi solo quella volta”.
“Un insospettabile consapevolmente inserito nel potente clan di Santa Maria di Gesù”, lo definirono i magistrati e i carabinieri. “Non sono un mafioso”, disse lui nel corso del primo nterrogatorio. Intercettato dalle microspie si vantava di aver conosciuto i vecchi padrini di Cosa nostra e di essere legato ai nuovi boss. “Era uno scherzo, a me la mafia fa schifo”, provò a difendersi. Insomma, millanterie di un uomo che tentava di accreditarsi agli occhi di chi comandava nella speranza di ottenere il loro aiuto per recuperare un credito di 120 mila euro. Poi, cambiò versione confermando il contenuto delle intercettazioni dei carabinieri: “Trent’anni che combatto con i latitanti – diceva Giordano – a rischiare che… e mi devono trattare come un drogato?! No mi siddia… tu prendi e togliamo tutte cose… parliamoci chiaro… cioè questo lo sfogo… mi permetto di farlo davanti a te…”. Ai mafiosi, poi arrestati assieme a lui, si rivolgeva dicendo “tu sei mio fratello… io sono nelle vostre mani…”. Ed ancora, a Santi Pullarà raccontava un aneddoto del padre, il potente boss Ignazio: “Due sere prima che arrestavano a tuo padre… ci siamo mangiati sgombri e champagne. Io e lui soli eravamo”. E infine si rammaricava per non essere riuscito a recuperare alcuni oggetti rubati alla figlia: ”… ma che mafia siamo, la mafia delle cause perse”.