PALERMO – Due sentenze, due verità che fanno a pugni. Per una Calogero Mannino è l’uomo che ha dato il via alla trattativa Stato-mafia. Per l’altra l’ex ministro democristiano non ha commesso il fatto. L’assoluzione di oggi, che conferma il verdetto di primo grado, disorienta.
“Mannino ha sempre detto che non gli interessava se una trattativa ci fosse stata, ma di certo lui non ne era il responsabile”, dicono gli avvocati Volo, Grosso, Montalbano e Bianchini. L’imputato, come dargli torto, guarda alla sostanza del suo processo, visto che aveva scelto di separarsi dagli altri imputati scegliendo il rito abbreviato (iniziato nel 2013 è stato tutto fuorché abbreviato).
L’assoluzione, però, impone una riflessione che sconfina da questo dibattimento per approdare in quello che in primo grado si è chiuso con condanne pesantissime per mafiosi e ufficiali dei carabinieri.
Due processi e un’unica ricostruzione. Mannino capisce che la mafia non gli perdonerà gli ergastoli ormai definitivi del maxi processo. Non ha rispettato il patto con i boss. Teme per la sua vita e chiede aiuto ai carabinieri. È l’incipit della Trattativa. Il ministro degli Interni Vincenzo Scotti, ritenuto troppo rigoroso nella lotta alla mafia, viene sostituito da Nicola Mancino. Giovanni Falcone è stato ammazzato. Lo Stato si mostra debole e Riina ne approfitta. Tutto il resto, compresa la strage di via D’Amelio, verrà dopo.
Come reggerà in appello il “dopo” che ha portato alla condanna degli altri imputati alla luce dell’assoluzione di Mannino? La Trattativa c’è stata anche senza il ruolo iniziale dell’ex ministro? Si capirà leggendo le motivazioni della Corte di appello presieduta da Adriana Piras che probabilmente richiameranno alcuni passaggi della motivazione del collegio presieduto da Alfredo Montalto.
Di sicuro oggi viene confermata la valutazione del giudice Marina Petruzzella che in primo grado aveva assolto Mannino sostenendo che non c’erano le prove per condannarlo. L’accusa aveva dato una chiave “unidirezionale”, quella colpevolista, a fatti e circostanze ed invece c’erano altre plausibili spiegazioni. Petruzzella si era spinta a scrivere che “tutti questi elementi vengono considerati situazioni probatorie o di riscontro indiziario reciproco, in una sorta di suggestiva circolarità probatoria. Ma, si ripete, ciascuno dei fatti politici valorizzati dal pm può avere avuto cause diverse, dettate ad esempio dalle consuete logiche di appartenenza della macchina e della burocrazia partitica, dalla volontà di evitare la linea netta di contrarietà al 41 bis, ovvero dalla volontà di percorrere una linea meno coraggiosa di quella di Vincenzo Scotti, anche ispirata da scelte di bieco opportunismo politico, senza la necessità di un accordo siglato con una parte mafiosa”.
La Corte di appello che ha confermato l’assoluzione di Mannino non si è limitata a rileggere gli atti di primo grado, ma ha riaperto l’istruttoria dibattimentale per valutare altri aspetti. E oggi ha concluso che Mannino “non ha commesso il fatto”. Non ha trattato con la mafia.