PALERMO- Alberto, vecchio e indimenticabile campione rosanero siede a capotavola nella casa comune che lo accoglie a Villabate. Non ha perso l’eleganza e la signorilità che erano il suo dono dentro e fuori dal campo. Ha uno sguardo pieno delle nebbie e dei cieli stellati che si susseguono nella navigazione di un uomo. Nel profondo degli occhi, conserva la bellezza del ragazzo che un giorno si innamorò del pallone per non lasciarlo più.
Sembra Ulisse, Alberto il campione gentile, sulla porta della sua vita a Itaca, mentre aspetta che qualcuno gli apra. E’ ben vestito. Ha radi capelli bianchi, un mezzo sorriso. Ha mani percorse da vene avventurose che stringono tutti i segreti del viaggio.
Alberto Malavasi, ottantatré anni, è un bellissimo anziano e un mito vivente. Perché sul prato dava l’anima, perché è sempre stato un gentiluomo di prima scelta. Giocò nel Palermo, lui che era di Reggio e che accettò a malincuore il trasferimento, intorno agli anni Sessanta, anche perché era fidanzato con la sua Graziella, la donna che avrebbe sposato. Poi si innamorò di una città che lo amò e continua ad amarlo senza posa. Due caratteri profondamente schivi – Palermo mostra solo l’esteriorità e riserva il suo cuore a pochi – destinati a legarsi per sempre.
Adesso è qui nella Rsa (residenza sanitaria assistenziale) ‘Karol’, diretta dall’avvocato Marco Zummo, da qualche anno, dopo l’aggravamento dell’alzheimer. Nella sua stanza luminosa ben curata hanno appeso una sciarpetta rosanero e foto in bianco e nero delle squadre storiche, protagoniste di un altro calcio, quello vero. “E il metodo protesico – spiega la dottoressa Rosalinda Scalisi – che si basa sugli spazi che devono essere il più possibile familiari e riportare tracce del vissuto di chi ospita, affinché ci sia benessere e si riesca a ricordare qualcosa”.
Alberto, a sentire la parola ‘Palermo’, si illumina d’immenso. “Quando, per stimolarlo, gli ho detto che siamo in serie D – aggiunge la dottoressa – ha risposto: ‘Non voglio commentare’. Quando è entrato nella sua stanza, per la prima volta, e ha visto le foto, si è commosso, ha sussurrato: ‘Lì ci dovrei essere io…’. E’ una persona molto garbata, gentile e dolce”.
Qui ci sono carezze per tutti, perché il contatto è importante. E’ una mattina di sole e di fiori alle finestre. Alberto Malavasi si trova seduto a capotavola in uno stanzone grande e dai colori allegri con altri compagni. Francesca Mascia, educatrice, gli accarezza la guancia come si farebbe con un nonno: “Come stai oggi, Albi? Come va? Che giorno è per te?”. Lui risponde: “Buono. Aspetto domani che sarà meglio”.
E ci sono due figlie, Francesca e Caterina, amorevoli e responsabili, sintonizzate sul respiro del padre che vegliano. Hanno accettato, con generosità, che la storia fosse raccontata proprio per la corrispondenza di affetti che lega la famiglia alla Sicilia e per dare speranza: il viaggio che riporta Ulisse a Itaca può avere luci, colori e fiori intorno ai passi faticosi. Ma quei passi sono tutto.
Si chiacchiera, ci si osserva, ci si sfiora, tra esistenze un tempo reciprocamente ignote, riunite nello stanzone dalle tonalità allegre. Tra poco, ognuno dei viaggiatori intorno alla tavola sarà riaccompagnato al suo letto, nel suo luogo. Alberto rientrerà nella sua stanza, guarderà gli scatti dei portieri di un’altra epoca colti nell’attimo del volo e un pezzetto del suo cuore andrà ad abitare quelle pareti piene di foto per sempre. E’ stato un buon giorno? “Sì, ma domani sarà meglio”. Sì, Alberto. Domani.