CATANIA – Le dichiarazioni del Governatore Crocetta sulla “Liberazione” del Teatro Antico di Catania, riportate dalla stampa si prestano ad alcune riflessioni. La prima è riferita alle valutazioni sulla prevalenza di alcune permanenze storiche rispetto ad altre: è da chiedersi infatti, sulla base di quale criterio oggettivo un reperto storico-architettonico sia più importante di quinte architettoniche determinatesi nei secoli, oppure del tessuto urbano che decenni dopo decenni, si è venuto a consolidare determinando così l’immagine urbana.
Altre valutazioni attengono alla specificità del luogo: per esempio se sia o meno da considerarsi un “valore” l’unicità di un monumento che può essere “scoperto” percorrendo l’interno di un fabbricato. Sì, perché il Teatro Antico catanese gode di una sua particolarità, e cioè quella di essere uno dei pochissimi (se non il solo) teatri antichi intimamente connessi al tessuto denso della città, cosa che lo caratterizza proprio per l’emozione della “scoperta”.
Altra questione, marginale in verità rispetto alle precedenti, è legata alle complicazioni procedurali ed economiche legate agli eventuali diffusi espropri per giungere alla “liberazione” del monumento, come pure quella relativa all’obiettivo di ripristinare, almeno così lascia intendere quanto pubblicato, i 7000 posti originari; dato sul quale, peraltro, qualche dubbio è lecito avere. Bisogna infatti porsi la questione di cosa significherebbe far arrivare e defluire migliaia di persone, in un luogo come quello dove il monumento giace, in un tempo ridotto, ai fini della sicurezza e dei relativi aspetti di protezione civile se proprio non vogliamo occuparci della vivibilità complessiva di un ambito urbano da sempre destinato alla residenza.
Tutto ciò, alla fine, per osservare che temi come il riuso, la riabilitazione funzionale di monumenti o ruderi (nell’accezione più nobile del termine) è questione complessa e delicata, che l’Ordine degli Architetti di Catania ha metodologicamente affrontato già nel 2014 con un workshop internazionale titolato “Aretè-abitare le rovine”. Parrebbe più utile e opportuno che temi interessantissimi come questo fossero affrontati con maggior cautela e ponderazione, anche nell’individuazione dei soggetti incaricati a darne eventuale attuazione.
In questo senso, volendo dare un contributo propositivo, si dovrebbe immaginare di poter ricorrere allo strumento principe in questi casi: un concorso di progetto, attraverso il quale indagare possibili soluzioni alternative, le relative refluenze sul contesto e sul tessuto urbano, le possibilità espressive e funzionali legate alle diverse soluzioni proposte. Naturalmente un concorso serio, diverso da quelli solitamente sin qui praticati in Italia e di cui anche Catania ha esperienza non troppo lontana. Un concorso con finalità chiare, in due fasi, con la certezza che al vincitore venga assegnata l’intera fase di progettazione, dove i giovani professionisti abbiano concreta opportunità di sperimentarsi indipendentemente dal loro fatturato, dove anche la direzione artistica sia garantita all’ideatore della proposta vincente. E’ un modello, questo, già avviato in Italia, rispetto al quale l’Ordine degli Architetti e l’intera comunità degli Architetti italiani, immagino, sarebbe disponibile a prestare assistenza e know-how. Per cambiare passo finalmente, solo che lo si voglia.