CATANIA – A Misterbianco un uomo è stato arrestato perché continuava a perseguitare la sue ex convivente violando ripetutamente il divieto di avvicinamento. Questo è solo l’ultimo dei casi stalking registrati nella provincia di Catania che dimostra, come se ce ne fosse di bisogno, l’importanza di non spegnere i riflettori sul fenomeno. Lo sanno bene le operatrici del centro “Thamaia” che da anni si occupano di sostegno alle donne vittime di violenza attraverso interventi diretti di tipo psicoterapeutico individuale e di gruppo, consulenze legali e sostegno para-legale. Un lavoro prezioso svolto da una decina di donne, reperibili sette giorni su sette e ventiquattro ore al giorno. Dal 2007, però, l’associazione (che riceve circa duecento donne l’anno) non gode più di alcun finanziamento da parte delle istituzioni. A parte le donazioni derivanti dal 5 per mille, i soldi continuano a scarseggiare. E pensare che l’associazione ha vinto un bando del Ministero ma senza riceve per il momento nemmeno un euro.
Loredana Piazza, avvocato che opera nel campo dal 2001 e presidente del centro, a Live Sicilia, dice la sua sui problemi della violenza di genere e sull’approccio migliore per tentare di risolverli da un punto di vista legale ma soprattutto culturale. “La mia personale opinione è che giuridicamente siano stati fatti alcuni passi avanti. Ad esempio- continua l’avvocata- la legge sullo stalking, cioè su gli atti persecutori. Quando è stato introdotto questo reato sono state introdotte altre piccole misure e accortezze di cui spesso non si parla. Non si finisce mai di migliorare le leggi prendendo esempio dai Paesi stranieri dotati di una legislazione in materia approfondita e studiata già da molti anni. L’attenzione per questo fenomeno in Italia è aumentata negli ultimi due anni”. “Oggi- prosegue- il fenomeno è stato riconosciuto a livello sociale, tutti ne parlano a partire dai media. Il mutamento sociale è seguito inevitabilmente dalla legislazione. La legge sullo stalking del 2009 ne è un esempio. Devo dire che il quadro normativo non è così disarmante come un tempo”.
Piazza ci tiene a mettere qualche puntino sulle i. “ Il reato relativo alla violenza di genere non riguarda soltanto lo stalking o gli atti persecutori. Questo è il minimo dei reati perché quando si parla di violenza di genere i reati presi in considerazione sono tantissimi: ingiuria, diffamazione, violenza psicologica e fisica, le lesioni, le percosse, la violazione del domicilia. E più di tutti: i maltrattamenti”. Perché “lo stalking è qualcosa che viene dopo”. “Noi- prosegue- avevamo bisogno di una legislazione specifica perché non c’era ma questo non ha risolto certo il problema. Pensiamo ai maltrattamenti in famiglia. Sono tantissime le donne che per dieci anni o più subiscono violenza psicologica e fisica tra le mura domestiche da parte del marito o del compagno. Questo non è stalking ma maltrattamento. E’ questo il vero problema”. “Lo stalking – dice Piazza- nasce in seguito all’allontanamento dal nucleo domestico. Telefonate e appostamenti che prima erano considerate semplici minacce adesso si chiamano atti persecutori perché unite da un unico filo conduttore. Tutto rientra nel reato di atti persecutori ed è punito con maggiore severità. La legislazione si può sempre migliorare, non è questo che lamentiamo”.
Per l’avvocato sono tre i punti cardine. “Personalmente chiedo una maggiore applicazione delle leggi che già abbiamo, una certezza della pena che oggi non c’è e la formazione degli operatori (forze dell’ordine, magistratura, medici e avvocati). La formazione è fondamentale perché se le forze dell’ordine intervengono in un caso di maltrattamenti in atto, ad esempio in seguito alla chiamata di un vicino, devono sapere come comportarsi. Se arrivano in casa, il più delle volte la donna nega le violenze perché in presenza del marito (perché terrorizzata e quando la polizia va via e lei rimane lì con il marito)”. “Mai obbligare una donna a denunciare -ammonisce l’avvocata- quando poi sappiamo che la dobbiamo rimandare a casa perché è a rischio”. Diverso è l’approccio da seguire. “Bisogna intervenire in ambito sociale. Serve un lavoro di rete, di messa in protezione della donna che non avviene solo tramite la legge ma con le strutture adeguate”.
“Penso ad esempio- continua- alle strutture di emergenza e di quelle a “rifugio segreto”. La struttura di emergenza è un luogo dove una donna in pericolo viene collocata per una settimana, due al massimo. Però, non tutti i casi di maltrattamento sono veramente di pericolo urgente e immediato per la donna. Per questo motivo i centri antiviolenza più che lavorare come strutture di emergenza sostengono che la fuori uscita dalla violenza è un percorso delicato”. Poi un esempio. “Pensiamo a donne senza reddito e con figli che non trova nessun aiuto poi è costretta a tornare dal carnefice. Il percorso di aiuto alle donne passa da un percorso di consapevolezza. Da noi dura sei mesi, è molto lungo. Il percorso di consapevolezza va di pari passo con quello legale (da valutare caso per caso)”.
Ad esempio, “si deve valutare se la donna è in pericolo di vita e vada quindi inserita in una casa “a rifugio segreto”. Questa è una struttura diversa, l’indirizzo del centro antiviolenza è pubblico mentre quello del rifugio non si conosce cosa che agevola la donna a recuperare la sicurezza perduta. Si tratta di una struttura più difficile da gestire”. Il pensiero dell’avvocata va immediatamente alla struttura messa in piedi da Thamaia fino al 2007. “Noi in passato abbiamo gestito una casa rifugio (fino al 2007) ma poi abbiamo chiuso per mancanza di fondi perché la tenevamo in piedi grazie ad un progetto regionale che poi è finito e nessuna istituzione ha dato continuità a questa causa”. “Ripeto – sottolinea Piazza- non è solo un problema di denunce, di sentenze o misure cautelari ma di riconoscimento del fenomeno da parte degli operatori del territorio (servizi sociali, medici, pronto soccorso, forze dell’ordine, magistratura). Solo così si attiverà una rete di protezione per le donne”. L’avvocato spiega il lavoro delle volontarie del centro. “Noi supportiamo la donna nel percorso di consapevolezza. Da un punto di vista giuridico la supportiamo in un percorso che è lungo e difficile: denunciare, costituirsi parte civile, affrontare un processo dove si fanno delle dichiarazioni davanti al carnefice (bisognerebbe fare certe udienze a porte chiuse). Servono alcune accortezze, devo dire che procura e sezione dibattimentale a Catania funzionano bene”.
Poi una considerazione sostanziale. “La cultura è fondamentale. Il fenomeno si sconfigge di più con la cultura che con l’inasprimento delle pene. Cambiare la cultura ci aiuterebbe di più. Ad esempio,- continua Piazza- dovremmo insegnare ai nostri figli (maschi e femmine) la differenza di genere come risorsa e non come prevaricazione e che le differenze vanno valorizzate. Non a caso abbiamo lavorato spesso con le scuole”. Infine l’avvocata torna sul binomio cultura – legge. “La certezza della pena è una cosa importante. Infatti, da un lato fa sentire la vittima più sicura e tutelata (meno ripensamenti, più fiducia nei confronti delle istituzioni e delle forze dell’ordine), dall’altro lato il colpevole non si sente impunito. Questo è importante: dare un segnale al colpevole che esiste un’autorità giudiziaria a tutela della vittima e che non si può fare quello che si vuole perché nessuno ti punisce”. “Ripeto -continua Piazza- questo non ferma il fenomeno ma è importante e ha una sua valenza. A questo, però, dobbiamo affiancare un cambiamento culturale e la formazione degli operatori”. Poi un esempio più che esaustivo: “non possiamo accettare che una donna si presenti dai carabinieri per denunciare una violenza sessuale e che si senta rispondere: signora, ma lei come era vestita?.”