Giustizia, caso Palamara, correntismo "Recidere ogni impropria influenza"

Giustizia, caso Palamara, correntismo|”Recidere ogni impropria influenza”

Intervista a Giuseppe Meliadò, nuovo Presidente della Corte d'Appello di Roma.
MAGISTRATURA
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ROMA – Il presidente Giuseppe Meliadò ha lasciato da qualche giorno Catania per guidare la Corte d’Appello di Roma. Una nuova sfida per il magistrato che arriva in un periodo molto duro per la giustizia italiana, ferita dallo scandalo Palamara. 

Presidente come valuta questo “momento” della giustizia italiana. La magistratura ha mostrato forse il volto più oscuro con il caso Palamara?

La Magistratura è stata e continua ad essere una delle grandi Istituzioni del nostro paese , che, come dimostrano le cronache di ogni giorno, tutela la legalità con risultati tangibili e senza immunità  o privilegi per alcuno, così contribuendo a garantire il necessario equilibrio fra i poteri dello Stato.

Detto questo (e non è poco), non vi è dubbio che il c.d. “caso Palamara” ha posto un problema di credibilità della Magistratura, che non è sembrata immune da logiche spartitorie e da cadute etiche ampiamente diffuse nella politica e nella società italiana, e proprio nel delicato settore della nomina dei dirigenti degli uffici.

Nel 2006, con la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, si decise di ridimensionare la regola dell’anzianità, nel corretto convincimento che non sempre il magistrato più anziano è quello più adatto a dirigere realtà complesse, come sono ormai gli uffici giudiziari; ciò ha consentito assai spesso di individuare l’uomo giusto per il posto giusto, ma il sistema non si è sottratto alla tentazione di far prevalere “logiche di appartenenza” che nulla hanno a che vedere con l’uso motivato e razionale della discrezionalità che necessariamente deve riconoscersi in questa materia al CSM..

Come ha fatto il correntismo a trasformarsi in quello che stiamo leggendo nelle famose chat, secondo lei?  

Le correnti hanno avuto un ruolo fondamentale nell’attuazione dei principi costituzionali che regolano lo status dei magistrati e l’organizzazione giudiziaria, in particolare nell’attuazione del principio del giudice naturale (che impedisce che siano i capi degli uffici a individuare discrezionalmente i magistrati incaricati di trattare i singoli processi) e della pari dignità delle funzioni giudiziarie ( che si oppone ad una organizzazione gerarchica della magistratura, quale quella ereditata dal fascismo e sostanzialmente sopravvissuta sino agli inizi degli anni ’60).

Si è trattato di un lungo e faticoso cammino, che si è accompagnato ad un ricco ed articolato – e spesso aspro- confronto ideale all’interno della magistratura, senza il quale (tanto per schematizzare) non avremmo avuto né i “pretori d’assalto”, né l’interpretazione evolutiva e conforme a Costituzione della legge.

Raggiunti questi obiettivi ( che, per l’affievolirsi progressivo della memoria, a tanti giovani magistrati sembrano oggi del tutto scontati), la spinta ideale e propulsiva delle correnti è parsa progressivamente inaridirsi, è scemato il confronto sui valori ed è prevalso il primato della prassi, la ricerca del consenso senza l’adesione ad una prospettiva e ad un progetto  sul ruolo del giudice e della giurisdizione.

Le “famose chat”, come dice Lei, vanno, nondimeno, ben al di là di questo orizzonte, di questa crisi di identità, che tuttavia richiamano e presuppongono.

Unicost riuscirà a rinascere?

Il problema non è di Unità per la Costituzione, ma di tutta la Magistratura, che deve ritrovare le radici antiche del suo pluralismo ideale e organizzativo.

Lei è d’accordo con le idee estremiste di azzeramento del CSM e dell’ANM, oppure pensa a un’opera di risanamento, dove si “salva” la parte sana dell’associazionismo e della Magistratura?

L’ANM è stata sciolta solo dal regime fascista, o meglio, con un nobile messaggio ai magistrati e al Paese, decise autonomamente di sciogliersi, allorquando constatò che, con il venir meno del regime parlamentare, non vi erano più le condizioni per operare con le garanzie proprie delle democrazie liberali. 

Il problema che è emerso in questo annus horribilis della Magistratura italiana non è quello di sopprimere (il che è una boutade), e neanche di demonizzare le formazioni sociali (che, secondo la Costituzione, arricchiscono la personalità umana e la società), ma di recidere ogni impropria influenza dell’associazionismo sull’ l’autogoverno della magistratura; l’ANM e i singoli gruppi associativi possono orientare idealmente e pure criticare il CSM, ma non anche condizionarlo.

Un bilancio di questi anni alla guida della Corte di appello di Catania?

 Abbiamo cercato di lavorare meglio, senza affidarci al caso e alla buona volontà , ma seguendo un progetto di cambiamento organizzativo, un metodo di lavoro, un crono programma di attività che hanno cercato di coniugare una forte consapevolezza del valore che rivestono i tempi del  processo con obiettivi selettivi di qualità della giurisdizione, che qualificano nel loro complesso il processo come equo.

E i risultati sono arrivati.

Quale è stato secondo Lei il più importante traguardo raggiunto?

Sicuramente la riduzione dei tempi degli appelli civili; sino a qualche anno fa per concludere un processo in appello erano necessari almeno cinque anni, oggi poco più di due, e già due per gli appelli in materia di lavoro.

L’arretrato civile ultrabiennale si è, pertanto, ridotto in questi anni di oltre il 67%.

Una maggiore sofferenza persiste nel settore penale, ma anche qui, grazie a precisi programmi di gestione, si stanno aggredendo i processi penali più risalenti, dando comunque priorità ai processi di maggiore allarme sociale, che incidono in maniera determinante nel nostro contesto ambientale.

La riqualificazione del Palazzo delle Poste è stata una sua grande battaglia. Soddisfatto di come si sta procedendo?

Sin dall’inizio ho ritenuto che i magistrati, gli avvocati e tutti gli operatori di giustizia catanesi avessero il diritto di lavorare in condizioni di dignità, che non fosse giusto dilapidare il denaro pubblico e che il nuovo palazzo di Giustizia non potesse essere un edificio qualsiasi, ma un edificio degno della identità storica della città di Catania e di un concezione moderna della giustizia, aperta verso la società.

Lei avrà visto il disegno del progetto prescelto, che si incentra sul rapporto fra la città e il mare; se tutto procederà per come previsto, sarà realizzato uno fra i più belli e moderni, per funzionalità e impostazione, palazzi di Giustizia d’Italia.

La scelta vincente è stata quella di bandire un concorso di progettazione, che ha visto la partecipazione di ben 85 professionisti; la risorsa fondamentale è stata la leale collaborazione fra le Istituzioni. 

Ho vissuto questa esperienza come una sfida alla rassegnazione.

Come sono stati questi mesi di giustizia “sospesa” per l’emergenza Covid? Qualche tensione con l’Avvocatura?  

Vi è stato sicuramente un rallentamento, ma mi sento in obbligo di ricordare che, in pieno Covid, fra l’8 marzo e il 15 maggio, in Corte di appello sono stati celebrati ben 100 processi penali, e che in particolare sono stati conclusi 12 maxi processi con più di 20/30 imputati,  al tempo stesso  che i giudici delle sezioni civili, a fine giugno, hanno sostanzialmente rispettato gli obiettivi di definizione previsti dai programmi di gestione.

Non vi è dubbio che gli ottimi rapporti da sempre instaurati con l’Avvocatura hanno agevolato la gestione di una situazione eccezionalmente difficile; basti dire che per la trattazione sia delle udienze civili che di quelle penali abbiamo stipulato protocolli condivisi con l’Avvocatura, che sono talmente innovativi che meriterebbero di essere  valorizzati anche quando tutto tornerà come prima.     

Cosa ha portato “in valigia” da Catania?

L’intelligenza e la passione dei miei giudici e dei miei collaboratori e il nostro metodo di lavoro: non mi hanno mai posto solo problemi, ma anche soluzioni, e insieme abbiamo risolto i primi e dato una prospettiva alle seconde.

Una nuova generazione di giudici ha costruito una nuova Corte di appello.

Un consiglio a chi prenderà qui il suo posto in Corte di appello a Catania?

Non avere mai paura del cambiamento.


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