C’è una poesia di Charles Bukowsky ‘Essi tutti lo sanno’, in cui una domanda-ritornello viene posta a una serie di soggetti irriducibili (‘Chiedete al sole su un cane addormentato’) per ottenere una risposta che non ha importanza, perché il fulcro è in quella richiesta che snocciola figure fantasmagoriche, figlie di uno spirito incandescente. Ecco, indegnamente parafrasando, chiedete a un siciliano qualsiasi, a più siciliani, ed essi ‘tutti vi diranno’ che il prototipo mitologico e immaginario del nullafacente è l’impiegato regionale. Anzi, il regionale: il bersaglio perfetto. E sbagliato.
Ovviamente, non è vero perché anche per costoro funziona come per le altre categorie che riassumono gli stakanovisti, gli impegnati, i furbetti che fanno melina e i fannulloni espliciti che si immaginano protetti da chissà quale divinità concreta. Ma si tratta di un archetipo duro a morire, la raffigurazione dell’uomo fortunato metà busto e metà scrivania, l’essere baciato dal sole che pascola nei prati dello stipendio fisso, senza che nessuno in cambio gli chieda alcunché. Oltretutto, la parola ‘regionali’ da sola non significa praticamente nulla e non può definirsi collettiva, perché si riferisce a una pluralità di persone e di mansioni. Eppure, la visione onirica del ‘regionale sfaccendato’ che prende il caffè un minuto sì e l’altro pure, appunto, fa parte di una consolidata attrezzatura di soprassalti e risentimenti.
Quello che ha detto il presidente Musumeci
Proprio per le ragioni appena esposte, ogni volta che si tocca l’argomento si dà fuoco alle polveri della polemica, quali che fossero gli intendimenti iniziali. Il presidente della Regione, Nello Musumeci, è stato esplicito, al suo solito: “La Regione non era fatta per risolvere i problemi, era fatta per diventare un ‘ammortizzatore sociale’. La Regione è stata la più grande industria per settant’anni; si poteva entrare anche senza concorsi, con un biglietto da visita, con una telefonata… questa è stata la Regione siciliana. E non avere il coraggio di dirlo è davvero criminale. Io ho il coraggio di dirlo. Avevamo 19.000 dipendenti: 5000 sono andati in pensione, ne abbiamo 13.000 e il 50% appartiene alla fascia A e B, assolutamente non funzionali a rendere efficiente la macchina regionale”.
Si tratta di un ritorno sul luogo del conflitto. Qualche mese fa il governatore aveva tuonato, sempre nei confronti dei suddetti genericamente intesi: “L’ottanta per cento di loro si gratta la pancia dalla mattina alla sera. Ma non ditelo ai sindacati. Ora vogliono stare ancora a casa per fare il ‘lavoro agile’. Ma se non lavorate in ufficio, come pensate di essere controllati a casa?”. Naturali le repliche di tono direttamente proporzionale all’assunto. A colpo si risponde con colpo. Ecco perché, nella nuvola di polvere sollevata dal reciproco crepitio di giudizi, si è già bella che persa l’origine della questione. E ogni riflessione pacata, d’ora in poi, diventerà impossibile.
Le polemiche degli anni passati
Non sono nuovi i ‘regionali’ alla non comoda sensazione di chi si trova nel centro del mirino dell’opinione pubblica, a prescindere dalla legittimità o non delle contestazioni. Spulciando negli archivi si trova l’eco di altre situazioni pugnaci che, nell’eterogeneità delle narrazioni e delle qualifiche, hanno denominatori comuni. Li ritroviamo in un nostro articolo di più di un anno fa, nel contesto di un rapporto ufficiale: “La Regione Siciliana paga troppi dipendenti poco qualificati e assunti con criteri non meritocratici. L’ennesima denuncia arriva dalla sezione Autonomie della Corte dei Conti in un capitolo della Relazione 2019 sulla spesa per il personale degli enti territoriali nel triennio 2015-2017 ora diffuso dal Centro Pio La Torre“. Li ritroviamo ancora in una cronaca, chiamati in causa, in modo ampio, dall’allora sottosegretario Davide Faraone: “Per il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, lo sciopero dei dipendenti regionali proclamato dai sindacati per il prossimo 20 marzo in Sicilia ‘ha dell’incredibile’.’Mi impressiona – ha detto Faraone a margine di un convegno a Palermo – questo sciopero proclamato dai sindacati sulla proposta di riforma del governo regionale che prevede l’equiparazione dei dipendenti regionali ai dipendenti pubblici e quindi il taglio del 600 percento di ore in permessi sindacali aggiuntivi di cui godono i sindacalisti siciliani rispetto al resto d’Italia”.
Per non parlare della ‘disfida’ sulle ferie. Pure Rosario Crocetta salì, circumnavigando la trama, alla ribalta delle cronache, rispetto, però, a fatti più specifici: “Il rischio delle infiltrazioni è presente. Attenzione, meglio precisare: la gran parte della burocrazia pensa a lavorare seriamente. E spesso, anzi, non viene nemmeno valorizzata. Ma c’è anche una parte di quella burocrazia, diciamocelo chiaramente, che pensa ad altro”. Dove si dimostra la pervasività di una categoria, a torto o a ragione, nell’epicentro di molte discussioni. E sono soltanto alcuni degli innumerevoli esempi di una questione che periodicamente ritorna o che non è mai sparita.
Regionali, ‘vil razza dannata’? No, però….
Proviamo a tirare le somme. A conti fatti, non si può scrivere che il ‘dossier’ non sia da affrontare con rimedi, per una qualità migliore del lavoro nell’amministrazione, premiando – come dovrebbe essere ovunque – i meritevoli e rimettendo sulla retta via i non meritevoli, nel rispetto di una sana dialettica con le persone. Farebbe piacere a chi lavora sul serio. Sul punto era intervenuto Alessandro Albanese, vicepresidente vicario di Sicindustria: “Serve una sorta di rivoluzione, e poi mi chiedo da quanto tempo non si faccia una adeguata formazione ai dipendenti della Regione. Dipendenti che vengono distribuiti senza logica, con uffici pieni di personale e dipartimenti in cui, al contrario, scarseggiano le risorse umane. Per non parlare delle premialità: non sono contrario, sia chiaro, ma non possono essere date a pioggia con obiettivi stabiliti dalle stesse persone che dovranno misurare la propria bravura”.
Insomma, la romanza ‘Regionali vil razza dannata’, molto popolare, non pare la chiave giusta per aprire la porta alla buona burocrazia. Occorre che il ‘regionale’ – l’archetipo che spesso serve a titillare un certo rancore sociale, con cospicue ricadute di consenso – sia sottratto alla sua mitologia negativa e che atterri, finalmente, nel campo dei ragionamenti concreti. “Vaste programme”, avrebbe detto un notissimo capufficio totale. Cioè: un’impresa quasi impossibile.