I vandali a scuola e i precari fuori, a lottare per un lavoro: è questa l’immagine che i media in questi giorni, in questi mesi, trasmettono. Eppure forse questi due fenomeni sono le due facce di un’unica medaglia. La scuola troppo spesso viene percepita come una dimensione estranea ai reali interessi, alle esperienze dei giovani. Essa, del resto, sovente risponde mostrandosi come una cittadella accerchiata da orde ignoranti e anarchiche. Le scuole: osservatele girando per quartieri vicini e lontani, non sembrano fortini assediati? Il senso di pericolo è avvertibile, palpabile, visibile. Le inferriate alte e robuste, i manifesti e le scritte minacciose circondano imbrattano inquietano. Per ogni roccaforte, per ogni città, per ogni impero assediato, ciò che viene percepito là fuori è il disordine: chi bussa alla porta sono i barbari. E più il sistema scolastico si arrocca a difesa del suo ordine costituito e della sua vetusta, anacronistica stabilità, più si allontana dal fiume impetuoso della cultura contemporanea: nonostante la scuola, i professori, i dirigenti scolastici e perfino i ministri dell’Istruzione, queste acque movimentate restano ciò in cui crescono e vivono, di cui si abbeverano i giovani. Bisognerebbe forse aprire le porte e fare entrare quel fiume dentro la scuola. Farsi rinfrescare, nutrirsene e contemporaneamente trovare il sistema per ammaestrarne l’impeto selvaggio e sfruttarne il potenziale irriguo. Convogliarlo verso le finalità dell’istituzione scolastica. Che, in fondo, sono ancora e sempre leggibili nella Costituzione repubblicana del ’48. In questi mesi, in questi giorni, la scuola ha fatto notizia per i suoi precari, per la drastica riduzione dei posti di lavoro, e per gli atti di vandalismo che, specie a Palermo, ne devastano troppo spesso le strutture, dando effettivamente l’idea che i “barbari” siano riusciti a sfondare i bastioni difensivi della cittadella della cultura. Eppure questi potrebbero essere due aspetti dello stesso fenomeno, ossia la marginalizzazione della scuola, nella cultura del Paese e nel bilancio dello Stato. Arduo risalire ai motivi specifici che stanno dietro a ognuno dei tanti raid negli istituti della città. Non ne conosciamo gli artefici. Possiamo solo riflettere a tavolino e provare a fare alcune considerazioni che, se pure non corrispondono alla verità, restano tuttavia verosimili. Qualcuno può vedere dietro gli episodi che avvengono in quartieri di frontiera, lo Zen per esempio, la mano di una porzione di società interessata a contrastare un baluardo di educazione alla legalità. In altri casi il movente dei “vandali” potrebbe ben essere stato meno progettualmente consapevole: magari solo il piacere di fare una scorreria, di compiere una bravata. Talvolta poi la scuola sarà magari apparsa come un luogo e un’occasione per qualche furtarello con cui procurarsi “qualche carta di cinquanta euro”.
Ma in tutti questi casi, se non rappresenta la causa diretta, certo deve essere una condizione necessaria alla liberazione della violenza quel sentimento di estraneità che temo l’istituzione scolastica susciti nel petto di tanti adolescenti – che rende più probabile, più semplice, più agevole, quasi naturale in certe condizioni, un atto di aggressione. Estranei gli ambienti, i corridoi, le aule, le pareti grigie, i manifesti e le cartine appese ai muri. Estranei i programmi, le materie, i linguaggi. Estranei e imposti. A scuola cosa decide il ragazzo? Quanto di quello che si fa lo coinvolge, lo chiama in causa attivamente? Quanto si fanno partecipare realmente gli adolescenti alla programmazione delle attività? Quanto essi sono davvero protagonisti e artefici delle decisioni che li riguardano? Troppo spesso agli studenti si chiede solo obbedienza, pazienza e buona educazione. Ma il buon vecchio paternalismo oggi più che mai sembra proprio non funzionare più.
Al Liceo classico Umberto I di via Filippo Parlatore, per far sentire un po’ più protagonisti i ragazzi – e scongiurare le occupazioni, in cui in fondo si manifesta la voglia di protagonismo dei giovani – si sono inventati la Settimana dello studente, un periodo in cui le normali attività vengono sospese e tutto passa per le decisioni degli alunni, che programmano seminari, incontri, dibattiti, ma anche feste e concerti in una scuola che non chiude mai.
È forse questa la strada da seguire. Fare delle scuole un reale punto di riferimento del territorio, un luogo di aggregazione, un palcoscenico in cui ci si possa esprimere, un campo da giochi, un circolo culturale, un posto insomma dove passare il tempo, istruirsi certo, ma anche creare, addestrarsi e abituarsi ai meccanismi della partecipazione democratica, all’esercizio della libertà e all’assunzione di responsabilità. Così magari si riuscirebbe a chiamare l’intero territorio, l’intera comunità a difesa dell’istituzione. Un edificio e delle attrezzature che si percepiscono come “proprie” e utili li si vorrà pur tutelare dai balordi o dalla criminalità.
Una scuola del genere però – e questa è appunto l’altra faccia della medaglia – avrebbe bisogno di ben altri investimenti per strutture e risorse umane. Dovrebbe dare ai ragazzi attrezzi sportivi e tecnologia, oltre agli spazi sempre aperti. Occorrerebbero dunque assistenti tecnici per tenere in ordine e personale docente per seguire i ragazzi nelle loro attività, per stimolarli, per incanalare nel migliore dei modi le loro urgenze espressive, nonché capaci di negoziare veramente attività necessarie all’istruzione con quelle utili a soddisfare l’inarrestabile voglia di espressione e la creatività giovanili. Proprio questo, purtroppo, nel nostro Paese appare oggi un sogno ingenuo e irrealizzabile, salvo poi magari accorgersi che da qualche parte in Europa è realtà quotidiana.
Partecipa al dibattito: commenta questo articolo