PALERMO – Fu “l’omertà più o meno consapevole”, a contribuire alla morte di Paolo Borsellino. Un’omertà di Stato. Sono durissime le parole di Claudio Martelli, ministro della Giustizia durante la stagione delle stragi, convocato dalla commissione regionale antimafia, guidata da Claudio Fava, che si sta occupando della strage di via D’Amelio, dei buchi e dei depistaggi nelle indagini.
Il ruolo dell’Fbi
La sua audizione inizia da un’altra strage, quella di Capaci. Martelli non si sorprende che alle indagini partecipò l’Fbi. “L’iniziativa fu mia, l’idea del capo della mia segreteria che mi accompagnò dove c’erano i mozziconi di sigarette”. Era il luogo dove fu azionato il telecomando che fece esplodere il tritolo lungo l’autostrada: “Gli americani avevano la competenze tecniche per analizzare i campioni e io avevo un buon rapporto con l’Fbi grazie a Falcone. La collaborazione l’aveva instaurata Falcone”. Una collaborazione normale, duqnue.
I servizi segreti
Per nulla normale, anzi contra legem, era stato invece il coinvolgimento dei servizi segreti da parte dell’allora capo della Procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra nelle indagini su via D’Amelio, che sui rivolse a Bruno Contrada. Ci furono delle riunioni operative e gli agenti segreti, che non potevano avere compiti di polizia giudiziaria, assunsero il coordinamento investigativo. Come è stato possibile? “Lo è stato violando la legge come lei steso dice (Martelli si rivolge al presidente Fava), semmai Tinebra si doveva rivolgere alla Dia. Rientra tutto in una catena di omissioni, responsabilità o forse di peggio che comincia con la mancata protezione di Paolo Borsellino”.
La mancata protezione di Borsellino
Borsellino non solo non fu protetto – neppure piazzarono il divieto di sosta sotto la casa della madre in via D’Amelio – ma venne tenuto all’oscuro delle minacce a suo carico. Basti pensare che una nota dei carabinieri del Ros che lanciava l’allarme fu trasmessa per posta ordinaria e arrivò quattro giorni dopo la strage. Martelli sottolinea le tante omissioni “nonostante le segnalazioni ricevute ripetutamente da me e dai miei uffici, dal ministro Scotti, dal capo della polizia, in ordine alla tutela che doveva essere messa in atto per Borsellino”.
Quelle urla in faccia
Ed invece il giudice e gli uomini di scorta saltarono in aria. Martelli ricorda che si precipitò a Palermo e convocò “tutti i quanti, vertici dei carabinieri, della polizia, della finanza, dei servizi, della Procura. Era inaccettabile ciò che era accaduto, era la prova di una colpevole incuria o di qualcosa di peggio”.
È il passaggio in cui le parole di Martelli sono più dure: “Mi chiedo com’è possibile che non ci sia stata nessuna indagine, nessuna inchiesta su questo fronte. Ci si sorprende dei depistaggi, ma innanzitutto c’è la mancata protezione di Borsellino, la mancata sorveglianza della casa della madre. C’è stata omissione, omertà più o meno consapevole”.
Il clima pesante
Martelli parla anche del clima che si respirava in quegli anni a Palermo e che portarono alla decisione di Falcone, una volta tagliato fuori dalla corsa per ricoprire l’incarico di consigliere istruttore a Palermo che era stato di Antonino Caponnetto, di trasferirsi a Roma. L’ex ministro ricorda ad esempio che “il sindaco Leoluca Orlando Cascio e l’avvocato Alfredo Galasso lo accusarono di avere tenuto nel cassetto alcune prove. Se non fosse stato questo il clima a Palermo non ci sarebbe stato bisogno che io chiamassi Falcone a Roma per continuare il suo lavoro agli Affari penali, per rendere legge la sua esperienza”.
Le guerre nella magistratura
Il ricordo della mancata nomina di Falcone porta Martelli a toccare il tema dei contrasti all’interno della magistratura, tornato di grande attualità: “La storia della magistratura inquirente degli ultimi 50 anni è talmente piena di contrasti, contraddizioni, reciproche smentite o guerre che francamente la gravità non è nel comportamento della magistratura ma nella vittima, in questo caso Borsellino. Ma tanti altri cittadini sono sono stati vittime di queste lotte intestine. Si apprende che magistrati sollevano accuse con un avviso di garanzia per escludere i colleghi dalla competizione”.
“Trattativa Stato-mafia? No, cedimento”
Infine un passaggio sulla trattativa Stato-mafia, oggetto di un processo di appello dopo le pesantissime condanne di primo grado. Le parole di Martelli partono dal suo rapporto con il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Sono sempre stato inviso a Scalfaro e la stessa cosa Scotti. Perché si spinge a ostracizzare due ministri? Era appartenente a quella schiera di politici prevalentemente democristiani, ma non solo, che era convinta che avessimo turbato la pax mafiosa. C’era la convinzioni che alcuni fanatici servitori dello Stato, i Ciaccio Montalto, i Dalla Chiesa, i Mattarella o, da ultimo, Scotti e io, toccando ferro, venivano turbando con delle iniziative la coabitazione quarantennale fra Cosa Nostra, una parte dello Stato, pezzi dello Stato, politici, magistrati,poliziotti. Era una quiete da non muovere altrimenti si rischiava peggio. Non credo che fu una trattativa, non ho mai creduto che si fossero messi a trattare. Il fatto che il generale Mori (Mario Mori, ufficiale del Ros e uomo chiave della Trattativa secondo la ricostruzione dei pm) abbia riferito di avere detto a Vito Ciancimino ‘ma dobbiamo continuare a fare muro contro muro’ mi fa ridere, ma non credo che abbia trattato. Lo Stato non tratta, l’avrà fatto a titolo personale”.
E sul piano politico che bisogna concentrarsi, secondo Martelli, invece di “arrovellarsi con processi che non finiranno mai nell’archeologica giudiziaria. Conso (l’ex guardasigilli Giovanni Conso che non rinnovò il 41 bis a tanti mafiosi in carcere) disse che si voleva dare un segnale di disponibilità all’ala moderata di Cosa Nostra al fine di evitare nuove stragi. Questa è la verità. Si è pensato di dare delle concessioni, ho sempre pensato a un cedimento dello Stato, non a una trattativa. È stata un’idea sbagliata e lo dimostra che dopo la disponibilità gli attentati sono continuati”.