“E se una persona che ha deciso di denunciare, ci ripensasse?”. La domanda cade sul dibattito del Festival della legalità, lasciando un rumore sordo. Quello della “provocazione”. La provocazione, si capisce subito, intelligente, fondata. Perché a lanciarla è la docente di una scuola di una delle zone di Palermo a “più alta densità mafiosa”, come si usa spesso dire, quella di Brancaccio. “E se una persona ci ripensasse?”, chiede Paola Bonsangue. E la provocazione, in effetti, arriva. E provoca. La reazione di un’altra insegnante che replica difendendo i valori della “coerenza”, la convinzione “che ripensarci sarebbe un fallimento, una sconfitta”, che un messaggio di questo tipo “non può essere trasmesso ai ragazzi”. Tutto giusto, ci mancherebbe.
La signora Bonsangue, però, replica, spiega. E le sue parole, a pensarci bene, somigliano molto, nei colori e nei sapori, a quelle degli imprenditori che hanno raccontato le loro “ribellioni” a Cosa Nostra. “Ed è meglio precisare subito – spiega l’insegnante – che io ho un grandissimo rispetto per queste persone che hanno coraggiosamente scelto di dire no al pizzo”. Già, le sue parole hanno lo stesso colore e sapore degli “imprenditori coraggiosi” giunti a Villa Filippina. Il colore e il sapore della realtà. Quella di chi vive, ogni giorno, in un contesto nel quale le parole sulla mafia, gli appelli all’impegno e alla mobilitazione, alla ribellione e al rifiuto, rimbalzano sulla gomma delle abitudini radicate da tempo, sugli esempi a volte terrificanti che hanno scandito la “storia” di certi rioni.
“Nella nostra scuola (l’Itis Volta di via dei Picciotti, ndr) – racconta la docente – hanno organizzato tutta una serie di dibattiti, convegni, assemblee”. Il risultato di queste giornate? “Me lo chiedo anch’io – continua – perché quelle parole si scontrano con i fatti del quartiere. Le racconto una cosa…”. Ed ecco il sapore della “realtà”: “Dopo l’assemblea un ragazzo è rientrato in classe. E mi ha raccontato che, solo per non aver pagato il pizzo, cinque suoi familiari sono stati uccisi. Concludendo con una sentenza: ‘Da quando paghiamo il pizzo, siamo a posto'”. Ed ecco che inizia a scorgersi il significato di quella provocazione. Il tentativo di aggirare ogni ipocrisia: “I ragazzi di certi quartieri non hanno bisogno di paroloni e applausoni. Hanno bisogno di indicazioni semplici. Rassicuranti. Perché in alcune zone, la ‘rivoluzione’ nei confronti della mafia può avvenire solo attraverso piccoli passi”.
Così, l’eventuale “ripensamento” cui accennava la docente, somiglia ai “braccioli” usati dai bambini che non sanno ancora nuotare: “Dire che, una volta parlato con le forze dell’ordine o le associazioni, si può tornare indietro, può aiutare a compiere quel passo con maggiore tranquillità, con minore paura”. Ecco, la paura, che sta dietro la denuncia, la rottura di equilibri e abitudini consolidate: “Non capisco perché a Palermo si debba rischiare di morire per vivere civilmente. La gente, specie in certe zone, ha paura e ha diritto di avere paura. In questa direzione andava il mio intervento”. Intervento che non cela l’orgoglio nei confronti proprio di quei ragazzi che vivono in ambienti “duri”, spesso non facili. “I miei ragazzi – afferma la docente – sono bravissimi. Sono intelligenti, e più vitali di tanti altri studenti di istituti più ‘blasonati'”. E una di queste ragazze si avvicina e chiede: “E’ possibile che, magari, i piccoli commercianti non si sentano tutelati come i grandi imprenditori che abbiamo visto qui? Possibile che i titolari di piccole botteghe sentano maggiore paura, si sentano più soli e per questo pagano il pizzo senza pensarci due volte?”. Bella domanda. Ha ragione l’insegnante. I ragazzi sono bravi. E hanno già imparato a provocare.