Riceviamo e pubblichiamo un pensiero della scrittrice Cetta Brancato ad Andrea Camilleri, ancora oggi ricoverato in gravi condizioni. Un pensiero all’amico, prima ancora che all’intellettuale.
Gli uomini di Sicilia hanno l’anima negli occhi, mai nella gola: ciò che si dice è, irrimediabilmente, perduto in parole insicure di vocazione e tempra.
Nutriti da magma lavico, dall’inaffidabile azzurro del cielo hanno sguardi normanni, greci, corsari così densi d’immaginario da vomitare pietre. Sono creature sconfitte dal peso inafferrabile di ogni relazione. Navigano in muta genesi, ma per la morte trovano sponde e argini.
I più tristi chiamano memoria il loro sentire, mentre i figli vivi dell’isola hanno proprietà d’amore, con ossa in un profondo senso della fine.
In questi giorni densi d’agonia, in questo limbo doloroso e pieno, guardando questa foto scattata a Roma, alla libreria Fandango, per la presentazione del mio ’19 luglio 1992’, mi sono chiesta dove sia l’anima di Andrea e se, dalla sua soglia incerta, stia ancora narrando la nostra terra. Lì, da uno scoglio di sole, su cui sirene cantano, ora in pena.
Mi è sembrato che il suo oblio sia l’ultimo incanto, una stazione in cui si stia acclimatando in un passo nuovo d’eterno.
Ho immaginato che chiedesse tempo per lasciare i giardini di Sicilia, il nostro paradiso, che raccogliesse piano i suoi segreti e il temerario amore per la penna.
O che, ancora nella casa, sistemasse i suoi libri, ne valutasse il peso, ne componesse i margini per portarli al padre sul cui letto di morte decise di diventare uno scrittore. Che sia, invisibile, nel suo studio col salottino verde menta, buono per il narrare lento di certe conversazioni del mattino. O dietro lo scrittoio con la testa leggermente inclinata fra le mani come se avesse il pensiero sulla nuca.
C’è stato un lungo sguardo fra me e Andrea, durato molti anni, in cui è passato il senso del sentire: un patrimonio silente di abitudini, d’irrequietezza, di stanze vuote e piene.
E con la stessa lingua di provincia ci siamo confessati poche cose: una messa in scena, uguale fatica per la pagina, le lunghe passeggiate, il gioco astuto dei nostri personaggi, i pranzi nelle domeniche d’inverno.
Si nascondeva in un riserbo suo, in sigarette smezzate, in un sorriso virile che sapeva di scorza dura d’ulivo.
Mai incline al dolore, mescolava pentole di storie profumate, magiche o ciniche, agganciandomi gli occhi dentro ai suoi.
Eppure, quello che dovevamo dirci lo abbiamo reso con uno solo sguardo su quella vita interiore che, in fondo, non possiamo che ammansire raccontandola.
Adesso dorme con lui la nostra isola.
Che un risveglio, dovunque esso maturi, sia di parole libere, parole nuove d’anima.