"Che succede ora?": Afghanistan, le storie di chi è scappato - Live Sicilia

“Che succede ora?”: Afghanistan, le storie di chi è scappato

La ragazza, il ragazzo e l'ufficiale: tre storie sull’Afghanistan e i dubbi sul futuro di chi è scappato

CATANIA – Passeggiano tra i prati, stretti tra le costruzioni in cemento e le recinzioni da base militare, sotto il caldo secco dei primi giorni di settembre. Non hanno molto alto da fare: dopo la loro fuga dall’Afghanistan, Sigonella è diventata il luogo di transito per migliaia di rifugiati afgani in fuga dal regime dei talebani. Un luogo in cui si raccolgono vite e direzioni che non sono nate qui e non si decideranno qui, ma a Kabul e a Washington.

Felice di essere qui”

Tra i rifugiati che attendono nella spianata di Sigonella molti parlano inglese a causa del loro lavoro con il governo statunitense, lo stesso lavoro che li ha costretti a fuggire quando le cose sono cambiate in Afghanistan. Tra questi una donna, Hamdiya (tutti i nomi sono di fantasia, per questioni di sicurezza), trent’anni, che cammina sorridente con accanto la figlia di sette, timida e spaventata. Alla domanda se sua figlia sia felice di essere qui Hamdiya risponde “Ma certamente”, e parla della sua storia con un inglese perfetto, venato appena da un accento asiatico: “Lavoravo nel controllo del traffico aereo a Kabul – racconta – per questo sono stata una delle ultime a scappare”.

“La mia famiglia – continua Hamdiya – è dovuta restare in città, e ancora in questo momento sono preoccupata per loro: mia sorella, prima dell’arrivo dei talebani, faceva l’avvocato, mia madre e un’altra mia sorella le insegnanti. Con il nuovo governo temo che avranno dei problemi”.

Davanti ad Hamdiya c’è un aereo per gli Stati Uniti, nei prossimi giorni. Ma lì, cosa farà? “Non so cosa aspettarmi – dice – spero che il governo mi supporti, dandomi supporto e soprattutto con un lavoro. Magari nel controllo del traffico aereo, quello che facevo prima di tutto questo”.

Nessuna idea di come andrà”

Un altro giovane, intorno ai 23 anni, Naji era piccolissimo quando gli statunitensi arrivarono in Afghanistan. Fino a poco tempo fa lavorava nel settore della gestione del rischio informatico. Anche lui è riuscito a salire su un aereo all’ultimo minuto dall’aeroporto di Kabul. “La mia famiglia – racconta – non ce l’ha fatta, perché in questi giorni era diventato impossibile entrare nell’aeroporto. Sono rimasti lì”.

Naji continua a sentire i suoi genitori tutti i giorni, sa che in questo momento passano la maggior parte del proprio tempo chiusi in casa, in attesa che la situazione diventi migliore. “Non ho nessuna idea di come andrà – dice Naji – questo è un periodo di transizione. Per adesso sono qui e domani andrò negli Stati Uniti. Da lì, ricomincerò”.

Ci prenderemo cura di loro”

La storia degli ultimi venti anni passa sopra la testa delle persone in attesa a Sigonella. Fatti avvenuti prima che nascessero, decisioni prese a migliaia di chilometri che spezzano le famiglie, qualcuno in viaggio per gli Usa, qualcuno intrappolato in Afghanistan. Ma c’è un’altra persona, con una storia e una vita del tutto differenti, che in questo momento si trova in una situazione simile, di non sapere niente di quello che accadrà a queste persone se non nell’immediato. È il comandante della regione Europa – Africa – Centro della Marina statunitense, Contrammiraglio Christopher Gray, da cui dipende la base di Sigonella e tutto lo sforzo logistico fatto nel mediterraneo per spostare le migliaia di rifugiati.

Parlando alla stampa, Gray si appassiona nel descrivere il contatto dei suoi uomini con i rifugiati, e lo sforzo che la macchina militare americana è riuscita a mettere in atto: “Vorremmo non farli partire, tutta la base si è presa cura del personale afgano evacuato, un’operazione gratificante, dato che abbiamo potuto mettere in sicurezza queste persone e abbiamo sentito la loro riconoscenza. Per questo il nostro personale non si è mai fermato, e ha sempre lavorato con il sorriso sulle labbra”.

Lo stesso contrammiraglio, però, deve fare un passo indietro quando si chiede cosa succederà a queste persone, che continuano a ripetere che si aspettano di non essere lasciate sole dal governo degli Stati Uniti. “Sicuramente ci occuperemo di loro, una volta che saranno arrivati negli Usa”, dice Gray, ma non può aggiungere di più perché gli avvenimenti successivi non dipendono da lui, non sono nelle sue mani. Persino un alto ufficiale delle forze armate più potenti del mondo, di fronte a venti anni di occupazione che si concludono, non può fare altro che concentrarsi sull’immediato, sul portare in salvo più persone possibili, e sull’augurarsi che qualcosa, a Washington, sarà fatto. Il segno del disorientamento statunitense di fronte all’Afghanistan: una macchina logistica perfetta che alza le mani davanti al futuro.


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