Alfano, lo sbarramento e il quid |Il contrappasso dell'ex delfino - Live Sicilia

Alfano, lo sbarramento e il quid |Il contrappasso dell’ex delfino

Scaricò Berlusconi per il Pd. Ora il Pd lo scarica per Berlusconi.

Il ritratto
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E alla fine i nodi vennero al pettine per Angelino Alfano. E per il suo plotone di fuoriusciti. Quel partito che qualcuno definì come più ricco di poltrone che di voti. Ap, ex Ncd, ha rotto con il Pd di Matteo Renzi. Che ha scaricato Angelino, compagno d’avventura di questi anni, con una battuta spaccona delle sue, ironizzando su come Alfano sia stato ministro di tutto e non riesca a superare il 5 per cento. Amara verità, anche se detta da chi ha governato per un pezzo con i voti in Parlamento degli alfaniani fa quanto meno sorridere

Fatto sta che in questi anni, dopo il “tradimento” a Berlusconi e l’uscita da Forza Italia, Ncd, oggi Alternativa popolare non si è mai messa al lavoro in modo efficace per trasformarsi da partitino figlio di un’alchimia di palazzo in qualcos’altro. Alfano ora parla dell’obiettivo di federare liberali e popolari in una forza centrista che possa ambire al 10 per cento. Ma da non si sa più quanto si parla di un nuovo soggetto da costruire insieme ai casiniani, e ancora si aspetta. Riuscire nell’impresa in zona Cesarini sembra un’impresa.

Se il centro non ha mai preso il volo, rimanendo centrino, è anche probabilmente perché c’è un problema di leadership. “Non ha il quid”, diceva di Angelino Berlusconi, quando Alfano studiava da erede. Forse il Cav non aveva tutti i torti, ma non si può dire che ad Alfano, con o senza quid, sia difettata una democristianissima arte di districarsi tra gli ostacoli.

Calamita di scandali e imbarazzi, l’eterno ministro in questi anni è sempre uscito indenne da tutto. Anche dallo scandalo internazionale del caso Sahalabayeva, la moglie del dissidente kazako rispedita in patria con la figlia. Un trambusto che non costò la poltrona ad Alfano, allora ministro dell’Interno. Che resistette anche alla vicenda del fratello assunto alle Poste con lauti stipendi. Altri dispiaceri, altra brutta pubblicità, altri imbarazzi. Che si aggiungono alle disavventure dei compagni di partito, così piccolo e così ricorrente nelle cronache giudiziarie. Dal Rolex del figlio di Lupi, che costò la poltrona di ministro, a quello di Simona Vicari, passando per le vicissitudini di Roberto Formigoni e Giuseppe Castiglione. Una lunga scia di imbarazzi che Angelino ha sempre dribblato, saldo sulla sua poltrona ministeriale, che con Gentiloni è diventata quella della Farnesina, dopo una lunga stagione al Viminale.

Il patto di ferro con Renzi si è rivelato alla fine per quello che era: un accordo di convenienza. E Matteo, cinico e spietato, ha dato subito il benservito ad Angelino e ai suoi, quando ha trovato un più robusto partner per l’inciucio futuro in Silvio Berlusconi. E certo non si può dire che la convenienza non sia stata reciproca, visto che in questi anni gli alfaniani hanno fatto incetta di poltrone di governo malgrado un peso elettorale mai effettivamente testato.

E ora? Che sarà del ragazzo venuto dalla provincia di Agrigento e cresciuto a pane e Dc? Il ritorno a casa in Forza Italia è quanto meno complicato, se non impossibile. Tanto più qui in Sicilia, dove a comandare c’è l’arcinemico Gianfranco Miccichè. Che ne benedisse l’ascesa, quando l’enfant prodige agrigentino entrò nel cuore di Berlusconi, che lo volle giovanissimo a capo della Forza Italia siciliana prima e ministro della Giustizia poi, negli anni delle famigerate leggi ad personam (e della grande riforma sempre annunciata e mai partorita). Fino all’ascesa al vertice nazionale del Pdl, da delfino del Cavaliere. Ripagato con l’abiura che partorì il Nuovo centrodestra, alla fine spiaggiato a sinistra. Sì, perché Angelino che scaricò Silvio per il Pd, finisce scaricato dal Pd per Silvio, in un crudele contrappasso.

Tra Alfano e Miccichè la rottura arrivò presto e portò alla clamorosa spaccatura del Pdl siciliano con la sponda del grande divisore Raffaele Lombardo, quella che schiuse nei fatti le porte di Palazzo d’Orleans a Rosario Crocetta. Oggi Miccichè potrebbe riaccogliere tra i ranghi qualche alfaniano, ma Alfano è un’altra cosa. Negli ultimi mesi diversi pezzi siculi del partito alfaniano – nel frattempo entrato in maggioranza con Crocetta – si sono sfilati, come l’ex presidente del Senato Renato Schifani, tornato in Forza Italia, o Alessandro Pagano, passato con Salvini. Possibile che con l’aria che tira, l’esodo a questo punto continui. Quando per anni il principale collante è stata la poltrona bisogna pur metterlo in conto.

E così ora ad Angelino e a quanti resteranno con lui non resta che la strada del disperato e tardivo tentativo di rattoppare un patchwork del centrismo italico per centrare il difficile obiettivo del 5 per cento. Convincendo i Fitto, i Verdini, i Tosi, i D’Alia e chi più ne ha più ne metta, che val la pena di buttare il cuore oltre l’ostacolo piuttosto che bussare col cappello in mano alle porte dei grandi per strappare qualche collegio. Lo sbarramento, dice ora il ministro, può essere “la scintilla per organizzare una rappresentanza di liberali e popolari che tutti i sondaggi dicono possa superare il 10 per cento”. Ma per farcela servirebbe un Macron italiano. O almeno servirebbe il quid.


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